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VICIOUS V.E. Schwab, [TRADUZIONE ITA]

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(V.E. Schwab)

VICIOUS


– CAPITOLO 15 –
DIECI ANNI PRIMA
CENTRO MEDICO DI LOCKLAND



ELI si lasciò cadere sulla sedia dell’ospedale accanto al letto di Victor, facendo scivolare lo zaino lungo il pavimento laminato accanto a lui. Victor stesso aveva appena terminato la sua ultima seduta con la psichiatra del Centro, la Signora Pierce, ove avevano esplorato la relazione con i suoi genitori, dei quali la Signora Pierce era – prevedibilmente – una fan. Pierce aveva chiuso la sessione ottenendo un loro libro firmato e sostenendo che stessero facendo già dei grandi progressi. Victor, in compenso, aveva ottenuto il mal di testa e una nota che lo intimava di incontrare il Consigliere della Lockland almeno per tre volte. Aveva negoziato la sua pena di settantadue ore a doverne spendere solo quaranta in cambio di quel libro autografato. Ora stava combattendo contro il bracciale dell’ospedale, dal momento che non riusciva proprio a toglierselo. Eli si sporse in avanti, tirò fuori un coltellino dalla tasca e glielo levò. Victor si massaggiò il polso e si alzò in piedi, sussultando. In effetti, non si era ancora ripreso del tutto, a quanto pareva.
“Pronto ad uscire di qui?” domandò Eli, rimettendosi lo zaino in spalla.
“Cavoli, sì,” rispose Victor. “Che cosa c’è in quella borsa?”
Eli sorrise. “Stavo pensando,” disse nel mentre cominciarono ad avviarsi, “al mio turno.”
Il cuore di Victor saltò un battito. “Hmm?”
“Da questa esperienza si può apprendere davvero tanto,” sostenne Eli. Victor mormorò qualcosa di poco gentile, ma Eli continuò come se niente fosse. “L’alcol è stata una cattiva idea. Così come gli antidolorifici. Il dolore e la paura innescano il panico e il panico incrementa la produzione di adrenalina e altre reazioni chimiche, così come ben sai.”
Victor corrugò la fronte. Sì, lo sapeva bene. Non ché al suo sé ubriaco di qualche giorno prima sarebbe importato molto.
“Ci sono solo un certo numero di situazioni,” proseguì Eli nel mentre passarono attraverso al paio di porte a vetro automatiche che li condusse finalmente fuori al freddo di quella giornata, “ove si possa riscontrare un livello di panico sufficientemente controllabile. Nella maggior parte dei casi, panico e controllo si escludono a vicenda. O almeno, non capita spesso che coincidano. Più controllo vuole dire meno panico, e viceversa.”
“Cosa centra con il contenuto della borsa?”
Raggiunsero la macchina ed Eli vi gettò dentro l’oggetto in questione.
“Tutto ciò di cui abbiamo bisogno.” Il suo sorriso si allargò. “Beh, tutto tranne il ghiaccio.”

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

DI fatto, “tutto ciò di cui abbiamo bisogno” equivaleva a una dozzina di pennette di epinefrina, più comunemente conosciute come EpiPens, e almeno il doppio di scaldamani, di quella tipologia che utilizzavano i cacciatori per scaldarsi mani e piedi durante l’inverno.
Eli afferrò tre delle pennette e le allineò sul tavolo della cucina accanto alla pila di scaldini, poi fece un passo indietro, facendo un ampio movimento come se indicasse a Victor di farsi avanti lui. Una mezza dozzina di sacchi di ghiaccio occupavano il lavandino, piccoli fiumi di condensa fredda bagnavano il pavimento.
“Le hai rubate?” chiese Victor, sollevando una pennetta.
“Le ho prese in prestito in nome della scienza,” replicò Eli mentre prendeva uno scaldamani e lo rivoltava per esaminarne il rivestimento in plastica. “Non se ne sono neppure accorti.”
Victor sentì un’altra fitta alla testa.
“Questa notte?” domandò, per l’ennesima volta da quando Eli gli aveva spiegato il suo piano.
“Questa notte,” confermò l’amico, recuperando la pennetta dalle mani di Victor. “Ho preso in considerazione la dissoluzione dell’epinefrina in soluzione fisiologica e l’averla somministrata per via endovenosa, dato che ciò fornirebbe una distribuzione più affidabile, ma sarà più lento e dipende anche dalla normale circolazione. Inoltre, data la natura del progetto, ho pensato che ci saremmo trovati più comodi con una soluzione più user-friendly.”
Victor osservò le forniture. La parte che coinvolgeva l’EpiPen era quella facile. Victor aveva seguito un addestramento di Primo Soccorso, e una comprensione intuitiva del corpo, ma era comunque un rischio. Né le sue conoscenze, né le sue abilità innate potevano davvero preparare uno studente per quello che stavano cercando di fare. Ucciderlo era facile. Riportarlo in vita richiedeva un po’ più di fatica e di conoscenza della medicina. Era più come cucinare piuttosto che il semplice cuocere. Il cucinare richiedeva molta più attenzione, tempo e accortezza, un po’ di arte e un po’ di fortuna. E loro avrebbero avuto bisogno di un bel po’ di fortuna.
Eli prese altre due EpiPen, e le sistemò tutte e tre nel palmo della mano. Lo sguardo di Victor vagò dalle pennette agli scaldini per poi ricadere sul ghiaccio. Erano degli strumenti così semplici. Poteva davvero rivelarsi non essere poi così difficoltoso?
Eli disse qualcosa. Victor riportò su di lui la sua attenzione.
“Cosa?” chiese.
“Si sta facendo tardi,” ripeté l’altro, gesticolando verso la finestra sopra al lavello dove avevano riposto il ghiaccio, mostrandogli la luce che stava rapidamente calando nel cielo ormai aranciato. “Meglio prepararsi.”

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR fece scorrere le dita nell’acqua ghiacciata, poi si ritrasse. Accanto a lui, Eli aprì l’ultima confezione, osservandola rompersi e lasciare ricadere i cubetti di ghiaccio nella vasca. Il ghiaccio che avevano aperto per primo si stava ormai sciogliendo, ma presto l’acqua sarebbe stata abbastanza fredda da impedire agli altri cubetti di sciogliersi. Victor si ritirò verso il lavandino e vi ci si appoggiò, sfiorando le tre EpiPen con la mano.
Avevano ripetuto più volte la scala delle operazioni da fare. Le dita di Victor tremavano debolmente. Afferrò l’estremità del mobile del lavandino per fermarle, mentre Eli si sfilava i jeans, la felpa ed infine la maglietta, portando alla luce una serie di cicatrici sbiadite che gli percorrevano la schiena. Erano di parecchio tempo prima, ridotte a dei segni quasi impercettibili, e Victor le aveva già viste senza avergli mai fatto domande a riguardo. Ora, mentre stava affrontando la reale possibilità di un’effettiva ultima conversazione con l’amico, la curiosità ebbe la meglio su di lui. Cercò nella mente come formulare al meglio la domanda, ma non fu necessario, perché Eli gli fornì la risposta ancora prima che lui potesse chiedere.
“È stato mio padre, quando ero piccolo,” disse velatamente. Victor trattenne il respiro. In più di due anni, Eli non aveva mai accennato a niente che riguardasse i suoi genitori. “Era un ministro.” C’era una nota pensierosa nella sua voce. “Penso di non avertelo mai detto.”
Victor non sapeva cosa dire, così lasciò uscire dalla sua bocca la parola più inutile al mondo: “Mi dispiace.”
Eli scostò lo sguardo e si strinse nelle spalle, facendo increspare le cicatrici sulla schiena. “Tutto a posto.”
Si chinò davanti alla vasca, con le ginocchia appoggiate sulla superficie di porcellana, guardando la superficie dell’acqua. Victor lo osservò e provò uno strano misto di interesse e preoccupazione.
“Sei spaventato?” chiese.
“Terrorizzato,” confermò Eli. “Tu non lo eri?”
Victor ricordò vagamente un barlume di paura poco prima di essere offuscato dagli effetti delle pasticche e del whisky. Scrollò le spalle.
“Vuoi un drink?” chiese.
Eli scosse la testa. “L’alcol riscalda il sangue, Vale,” disse, con gli occhi ancora fissi sull’acqua ghiacciata. “Non è esattamente l’ideale, dato quello che sto per fare.”

[PS. NOTA: Raccontatomi da una mia conoscente che studia Medicina: invero l’alcol da solamente la sensazione di riscaldamento corporeo, in quanto l’alcol fa dilatare i vasi sanguinei. Di conseguenza, ci si sente più caldi, ma si disperde calore molto più in fretta. Morale: Meglio evitare di bere se lo scopo è quello di rimanere caldi per lungo tempo. – La mia conoscente consiglia piuttosto di denudarsi e usare l’alcol per creare un falò con i vestiti per scaldarsi in situazioni disperate (sempre che abbiate dei fiammiferi o qualcosa per accenderlo a portata di mano).]

Victor si domandò se Eli sarebbe stato effettivamente in grado di farlo, o se il freddo avrebbe spezzato la sua maschera di disinvoltura e fascino, rivelando il vero sé al di sotto.
“Quando sei pronto,” lo invitò Victor, cercando di dissipare la tensione. Quando Eli non si mosse, Victor si allungò verso il water, dove aveva appoggiato il suo pc portatile. Aprì il lettore musicale e avviò una canzone rock.
“Farai meglio a spegnere questa roba quando dovrai cercare di sentire il battito,” commentò Eli.
Poi chiuse gli occhi. Le labbra si mossero debolmente, e anche se aveva le mani sui fianchi, Victor sapeva che stava pregando. La cosa lo rese perplesso, come se qualcuno che stava giocando a fare Dio potesse effettivamente pregarne uno.
Quando infine Eli aprì gli occhi, Victor gli chiese, “Che cosa gli hai detto?”
Eli sollevò un piede, posizionandolo sul bordo della vasca. “Ho messo la mia vita nelle sue mani.”
“Bene,” disse Victor, serio, “speriamo che abbia sentito.”
Eli annuì e fece un respiro profondo, poi si immerse nell’acqua gelida.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR si appoggiò con la schiena sul bordo della vasca, stringendo il suo drink nel mentre fissava il corpo di Elliot Cardale. Eli non aveva ancora mostrato segni di cedimento. Il dolore doveva essere propagato lungo tutti i muscoli, eppure non si era lasciato sfuggire neppure un gemito dal momento in cui si era immerso nel ghiaccio. Victor aveva solamente provato a sfiorare la superficie dell'acqua con le dita ed era stato sufficiente a suscitare una scintilla di dolore che gli aveva risalito tutto il braccio. Voleva odiare Eli per la sua incredibile compostezza. Sperava che si sarebbe scomposto, in qualche modo, arreso, e di doverlo aiutare ad uscire dalla vasca, offrirgli da bere, e che si sarebbero seduti a parlare delle prove fallite e riderne sopra.
Victor bevve un altro sorso del suo drink. Eli era ridotto ormai ad un'ombra cianotica. Victor aveva spento la musica, il pesante battito del suo cuore gli rimbombava nella testa finché non si rese conto che stava udendo il proprio, e non quello dell'amico. Quando aveva azzardato a sfiorare la superficie ghiacciata per cercare il polso di Eli — ritirandosi indietro immediatamente dal freddo — non l'aveva trovato. Aveva deciso di aspettare ancora qualche minuto prima di riprovare. Se Eli fosse riuscito a tornare indietro da quell'esperienza, non avrebbe potuto accusare Victor per aver lasciato passare del tempo.
Quando divenne evidente che il corpo nella vasca da bagno non si sarebbe rianimato da solo, Victor mise da parte il drink, e si mise al lavoro. Fare uscire Eli dalla vasca sarebbe stata la parte più difficile, dal momento che era più alto di Victor di diversi centimetri, oltre che sommerso al di sotto di numerosi cubetti di ghiaccio. Dopo diversi tentativi e imprecazioni (non era una cosa che faceva solitamente, ma si sentiva terribilmente sotto pressione), Eli crollò sul pavimento accanto a lui con un tonfo sordo da peso morto. Victor rabbrividì. Decise di aspettare di ricorrere all'EpiPens e si lanciò a recuperare la pila di coperte e di scaldini per le mani, ricordando le istruzioni impartitegli da Eli stesso, asciugando rapidamente il corpo dell'amico. Collocò gli scaldini intiepiditi sui punti vitali: sulla testa, dietro al collo, sui polsi e l'inguine. Quella era la parte del piano che avrebbe richiesto un sacco di fortuna. Victor dovette decidere quale punto del corpo fosse abbastanza caldo dove iniziare con le iniezioni. Iniziare troppo presto avrebbe implicava che l'epinefrina avrebbe provocato troppo stress al cuore e agli organi. Farlo troppo tardi significava una percentuale molto più alta che Eli non si risvegliasse, e sarebbe stato impossibile risolvere quell'inconveniente.
Victor accese la lampada termica del bagno e afferrò le tre pennette. Sapeva che se non ci sarebbe stata una risposta cardiaca alla terza, avrebbe voluto dire che era troppo tardi. Le riorganizzò sulle piastrelle accanto a lui, le mise una accanto all'altra e attese. Ogni pochi istanti controllava che la temperatura corporea di Eli si stese alzando. Si erano resi conto di non possedere un termometro ormai a metà dell'opera, quindi doveva contare sulla capacità di comprensione termica della sua stessa pelle. Eli aveva confidato in Victor, e contava sul fatto che più di tutti alla Lockland aveva dimostrato una grande affinità con la medicina (anche se in realtà non era esattamente un suo dono innato). Victor vedeva il corpo come una macchina, composita dai pezzi necessari, ogni componente - dai muscoli alle ossa - lavorava su reazioni chimiche e cellulari, che agivano per azione e reazione. A Victor sembrava avesse totalmente senso la vicinanza tra le due materie.
Quando Eli fu abbastanza caldo, Victor iniziò con le compresse. Ora il suo corpo aveva smesso di essere freddo come il ghiaccio, per essere più freddo come una persona. Rabbrividì quando le costole si spezzarono sotto la pressione delle sue mani, ma non si fermò. Sapeva che se non si fossero separate dallo sterno, non stava premendo abbastanza forte e il massaggio cardiaco non avrebbe riattivato il cuore. Dopo diverse serie, si fermò per afferrare la prima penna e la conficcò nella gamba di Eli.
Uno, due, tre.
Nessun responso.
Riprese con il massaggio, cercando di non pensare alle costole rotte e al fatto che Eli continuasse a sembrare ostinatamente morto. A Victor iniziarono a fare male le braccia ma resistette all'impulso di lanciare delle occhiate verso il suo cellulare, cadutogli dalla tasca nella lotta per recuperare Eli dalla vasca.
Chiuse gli occhi, continuando a contare e premendo i pugni intrecciati sul petto dell'amico in corrispondenza del cuore.
Non funzionò.
Victor recuperò la seconda penna e iniettò anche quella.
Uno, due, tre.
Ancora nulla.
Per la prima volta, il panico pervase la bocca di Victor come della bile. Deglutì e riprese con compressioni. Gli unici suoni nella stanza erano i suoi conteggi sussurrati e i battiti del polso — del suo polso, non di quello di Eli — e lo strano suono che producevano le sue mani nella ricerca di riavviare il cuore del suo migliore amico.
Provò ancora. E fallì.
La speranza di Victor cominciò a vacillare. Gli restava una sola pennetta. La sua mano scivolò giù dal petto di Eli, tremando nel mentre arricciava le dita per afferrare l'oggetto. Sollevò la penna e si bloccò. Sotto di lui, disteso sulle piastrelle del pavimento del bagno, c'era il corpo senza vita di Eli Cardale. Lo stesso Eli che al suo secondo anno si era presentato sulla soglia della sua stanza con un sorriso. Lo stesso Elo che credeva in Dio e allo stesso tempo aveva un mostro dentro, proprio come Victor, ma sapeva nasconderlo molto meglio. Quell'Eli che se la cavava in tutto, che si era infilato a forza nella sua vita, che gli aveva rubato la ragazza. Quell'Eli che, nonostante tutto, significava qualcosa per Victor. Deglutì di nuovo e spinse la pennetta nel petto del suo amico deceduto.
Uno... due... tre...
Niente.
E poi, quando fece per rinunciare e per recuperare il suo telefono, Eli ansimò.


 
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VICIOUS


– CAPITOLO 16 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


VICTOR udì il rumore di passi scalzi dietro di lui mentre Mitch faceva capolino nella stanza. Vide la sua massiccia figura riflessa nel vetro, lo avvertì come avvertiva tutti, come se fossero tutti sott'acqua, incluso sé stesso, e ogni movimento creasse delle increspature.
"Stai vagando," notò Mitch, incontrando il suo sguardo riflesso nel bicchiere. Era una piccola frase familiare, che Mitch aveva iniziato ad usare ogni qual volta che ritrovava Victor a fissare oltre le sbarre, socchiudendo gli occhi, come se cercasse di vedere attraverso le pareti qualcosa in lontananza. Qualcosa di importante.
Victor batté le palpebre, gli occhi abbandonarono la finestra e il riflesso spettrale di Mitch in essa. Ascoltò i passi di Mitch retrocedere verso la cucina, il suono morbido del frigorifero che si apriva e di un cartone che ne veniva estratto. Latte al cioccolato, molto probabilmente. Era l'unica cosa che l'omone voleva bere adesso che era fuori, dato che alla Wrighton non ne avevano. Victor inarcò le sopracciglia, ma lasciò che l'uomo si concedesse i suoi capricci. La prigione riempiva di brama, accrescendo le dipendenze umane delle persone.
Anche Victor voleva qualcosa. Voleva vedere Eli sanguinare.
Mitch appoggiò i gomiti sul bancone e bevve il suo latte in silenzio. Victor pensava che il suo compagno di cella, una volta uscito, avrebbe avuto un piano tutto suo, persone che avrebbe voluto vedere o qualcosa del genere, ma si era limitato a seguire Victor e rubare un auto esattamente come lui gli aveva chiesto, senza mai dire niente. Se Mitch avesse un passato, stava chiaramente ancora cercando di scappare da esso, e nel frattempo, Victor era più che disposto a dargli qualcosa con cui occupare il tempo. Gli piaceva rendere le persone utili.
Il suo sguardo vagò oltre il riflesso di Mitch, verso lo Skyline notturno di Merit.
I due erano stati compagni per molto tempo. Sapevano quando l'altro volesse parlare e quando volevano rimanere in silenzio a pensare. L'unico problema era che la maggior parte delle volte Victor voleva riflettere, mentre Mitch voleva spesso parlare. Victor sentiva che Mitch cominciava ad agitarsi sotto il peso della quiete.
"Bella vista," esordì, indicando la vetrata con la mano in cui teneva il bicchiere, facendo tintinnare il ghiaccio al suo interno.
"Già," concordò Mitch. "È passato molto tempo dall'ultima volta che ho visto una visione del genere. Nel prossimo posto che visiteremo, spero ci siano altre visuali come questa."
Victor annuì, distrattamente, appoggiando la fronte contro il vetro freddo. Non poteva permettersi di pensare a quello che avrebbero fatto dopo. Aveva dovuto imparare a pensare solo al presente ed alle cose immediate.
Mitch sbadigliò. "Sei sicuro di stare bene, Vic?" domandò, riponendo nuovamente il cartone di latte nel frigorifero.
"È stata una notte lunga."
"Notte," ripeté Mitch, vagando nuovamente verso la sua stanza.
Victor osservò i suoi passi nuovamente attraverso il vetro, per poi concentrarsi sul riflesso del proprio sguardo fino a vagare nuovamente verso gli edifici bui. Si separò dalla finestra e finì il suo drink.
C'era una cartella appoggiata sul tavolino accanto al divano di pelle e una manciata di carte che ne fuoriuscivano. Una fototessera in parte coperta dalla copertina della cartella, attirò la sua attenzione. Victor appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo e scostò la facciata per rivelare completamente il volto sulla tessera. Era la pagina di una copia del National Mark che aveva acquistato quella mattina.

CIVILE EROE SALVA BANCA

Ne seguiva un articolo sul giovane, un ragazzo che si era trovato nel posto giusto al momento giusto e aveva rischiato la vita per fermare un rapinatore armato in una filiale locale.

Smith & Lader Bank, un punto di riferimento nel settore finanziario settentrionale di Merit, è stata protagonista di una rapina sventata ieri, quando un Eroe Civile si è posto tra un assalitore mascherato e il denaro. Il civile, che desidera restare anonimo, ha testimoniato alle autorità di aver notato che l'uomo si stesse comportando in modo sospetto a diversi isolati dalla banca, e che sia stata una sensazione negativa ad averlo convinto a seguirlo. Prima di raggiungere la banca, l'uomo sembra si sia infilato la maschera e, quando il civile è riuscito a raggiungere il loco, il ladro era già entrato. Con gesto temerario, il civile è entrato dopo di lui. Secondo i clienti e gli impiegati intrappolati all'interno, il ladro è sembrato disarmato in un primo momento, ma poi ha iniziato a sparare con un'arma che non si è riuscito ad identificare verso il soffitto di vetro, facendone ricadere i frantumi sugli ostaggi. Poi sembra aver preso di mira il caveau della banca, ma è stato dissuaso dall'arrivo del Civile. Il direttore della banca riferisce che il ladro abbia preso di mira quest'ultimo quando ha cercato di intercedere nell'azione, e che poi sia scoppiato il caos. Grazie a questo diversivo, gli ostaggi sono riusciti a fuggire dall'edificio. Quando la polizia ha raggiunto la scena, era già tutto finito. Il ladro, in seguito identificato come Barry Lynch, è rimasto ucciso nello scontro a fuoco, ma il civile è rimasto illeso. Una brutta giornata terminata con un lieto fine, una notevole dimostrazione di coraggio da parte di un cittadino di Merit e non c'è dubbio che la città gli sia grata per avere un tale eroe per le proprie strade.


Victor eliminò buona parte delle frasi su quel articolo, e quando ebbe finito, il risultato ne lasciò visibili solo poche parole:

Smith & Lader Bank, un punto di riferimento nel settore finanziario settentrionale di Merit, è stata protagonista di una rapina sventata ieri, quando un Eroe Civile si è posto tra un assalitore mascherato e il denaro. Il civile, che desidera restare anonimo, ha testimoniato alle autorità di aver notato che l'uomo si stesse comportando in modo sospetto a diversi isolati dalla banca, e che sia stata una sensazione negativa ad averlo convinto a seguirlo. Prima di raggiungere la banca, l'uomo sembra si sia infilato la maschera e, quando il civile è riuscito a raggiungere il loco, il ladro era già entrato. Con gesto temerario, il civile è entrato dopo di lui. Secondo i clienti e gli impiegati intrappolati all'interno, il ladro è sembrato disarmato in un primo momento, ma poi ha iniziato a sparare con un'arma che non si è riuscito ad identificare verso il soffitto di vetro, facendone ricadere i frantumi sugli ostaggi. Poi sembra aver preso di mira il caveau della banca, ma è stato dissuaso dall'arrivo del Civile. Il direttore della banca riferisce che il ladro abbia preso di mira quest'ultimo quando ha cercato di intercedere nell'azione, e che poi sia scoppiato il caos. Grazie a questo diversivo, gli ostaggi sono riusciti a fuggire dall'edificio. Quando la polizia ha raggiunto la scena, era già tutto finito. Il ladro, in seguito identificato come Barry Lynch, è rimasto ucciso nello scontro a fuoco, ma il civile è rimasto illeso. Una brutta giornata terminata con un lieto fine, una notevole dimostrazione di coraggio da parte di un cittadino di Merit e non c'è dubbio che la città gli sia grata per avere un tale eroe per le proprie strade.


Cancellare quelle parole lo calmò, ma ciò non cambiò il fatto che l'articolo fosse chiaramente incentrato sulle cose sbagliate. Victor aveva fatto ricercare a Mitch maggiori dettagli sul ladro, Barry Lynch, e da quello che erano riuscito a scoprire, Barry aveva diversi collegamenti con le EO. Non solo aveva passato una NDE, ma aveva accumulato una serie di arresti nei mesi seguenti a tale esperienza, tutti per furto e con un'arma non identificata. I poliziotti non lo avevano mai trovato in possesso di armi, quindi era sempre stato rilasciato. Victor si domandò se non fosse Barry stesso l'arma. Ancora più preoccupante — ed intrigante — di un potenziale EO era la fotografia di questo Eroe Civile. Aveva richiesto di rimanere anonimo, ma sotto l'articolo c'era una sua foto. Una foto sgranata del giovane che si allontanava dalla scena e dalle telecamere, ma non prima di lanciare n ultimo sguardo arrogante alla stampa. Il sorriso sul volto dell'uomo era inconfondibile. Lo steso identico sorriso. Perché Elliot Cardale non era invecchiato di un giorno.

 
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– CAPITOLO 17 –
DIECI ANNI PRIMA
CENTRO MEDICO DI LOCKLAND


ELI tossì diverse volte, massaggiandosi il petto. I suoi occhi si spalancarono, lottando per rimanere concentrato. Osservò la stanza intorno a lui prima di portare la sua attenzione su Victor. “Ehy,” disse tremante.
“Ehy,” gli rispose Victor, ancora afflitto dalla paura e dal panico. “Come ti senti?”
Eli chiuse gli occhi, ruotò la testa da un lato all’altro. “Io… non so… sto bene… credo.”
Bene? Victor gli aveva rotto le costole, ed Eli si sentiva bene? Victor aveva provato un’esperienza vicina alla morte e si era sentito molto peggio, come se ogni parte del suo corpo fosse stata schiacciata e strizzata. Però, Victor non era effettivamente morto, giusto? Non nel modo certo così come era successo ad Eli. Era rimasto lì ad a guardare e si era assicurato che Elliot Cardale arrivasse ad essere un cadavere. Forse era a causa dello shock e dell’adrenalina che si sentisse… bene?
“Bene?” ripeté ad alta voce.
Eli si strinse leggermente nelle spalle.
“Riesci a…” Victor non era sicuro di come finire la domanda. Se la loro teoria assurda avesse funzionato e Eli avesse in qualche modo acquisito una qualche abilità morendo e tornando indietro, come poteva saperlo?
Eli sembrò comprendere ciò che voleva chiedergli. “Non credo di poter sparare raggi laser con gli occhi o altre cose del genere, ma almeno non sono morto.”
Victor percepì del sollievo nella sua voce.
Con i due seduti su una pila di asciugamani inumiditi sul pavimento del bagno, l’esperimento iniziò a sembrare piuttosto stupido. Come avevano potuto rischiare tanto? Eli fece un altro lungo respiro profondo, poi si alzò in piedi. Victor si affrettò ad afferrarlo per un braccio, ma Eli lo scacciò.
“Ho detto che sto bene.” Lasciò il bagno, con gli occhi che evitarono accuratamente la vasca e svanì nella sua stanza alla ricerca di dei vestiti asciutti. Victor immerse la mano nell’acqua ghiacciata un’ultima volta per rimuovere il tappo. Quando ebbe ripulito tutto, Eli era riapparso in sala, completamente vestito. Victor lo ritrovò ad esaminare la propria figura sullo specchio a muro, leggermente accigliato, il suo equilibrio vacillò o si tenne stabile piantando una mano contro la parete.
“Penso di aver bisogno…” iniziò.
Victor pensò che avrebbe terminato la frase con “un dottore”, ma invece Eli incontrò i suoi occhi nello specchio, sorrise – non uno dei migliori – e concluse: “di un drink.”
Victor si sforzò a ricambiare il sorriso. “Penso di poter fare qualcosa a riguardo.”

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

ELI insistette per uscire.
Victor pensò che sarebbero potuti stare meglio nel confort del loro appartamento, ma dati i recenti traumi vissuti dai due uscire era sembrata una valida alternativa, quindi decise di assecondarlo. Avevano bevuto parecchio, anche se Eli sembrava essere rimasto straordinariamente lucido, considerando l’enorme quantità di alcool che aveva consumato, e girovagavano per le strade che distanziavano il bar locale e il condominio.
Per tutto il tempo, avevano fatto entrambi del loro meglio per evitare di parlare di quello che era successo, e quanto fossero stati fortunati che, alla fin fine, fosse andato tutto bene. Nessuno dei due sembrava ansioso di tirare fuori l’argomento, soprattutto per il fatto che non ne avevano fruttato nulla di extra-ordinario – se non una straordinaria fortuna. Passeggiarono in silenzio, inciampando in giro con lo sguardo alto verso le stelle.
Victor sentiva caldo, nonostante le raffiche di neve. Eli sorrideva stupefatto al cielo notturno, poi scese dal marciapiede – o perlomeno, ci provò. Il suo tallone scivolò e lui inciampò, atterrando su mani e ginocchia in mezzo ad un cumulo di neve sporca e frastagliata da tracce di pneumatici e frammenti di vetri rotti. Sibilò, indietreggiando e Victor scorse una macchia goccia sul bianco infangato. Eli si sedette sul bordo del marciapiede, inclinando il palmo verso il lampione più vicino per vedere meglio lo squarcio che vi si era creato con i resti di una bottiglia di birra abbandonata lì da qualcuno.
“Ahia,” commentò Victor, chinandosi su di lui – quasi perdendo l’equilibrio – per esaminare meglio il taglio. Si bloccò quando notò che Eli, imprecando sotto voce, stava già rimuovendo la scheggia più grossa.
“Pensi che avrò bisogno di dei punti?”
Sollevò la mano insanguinata per lasciare che Victor la ispezionasse, come se il suo giudizio fosse migliore del suo. Victor socchiuse gli occhi e stava per rispondere con tutta l’autorevolezza di cui era capace, quando si accorse di una cosa.
Il taglio sul palmo di Eli stava iniziando a richiudersi.
Il mondo, che nella visione di Victor prima ondeggiava, si fermò bruscamente. Non vi era movimento intorno a loro se non quello della ferita di Eli che si ricomp0neva e i vapori emessi dai loro respiri nella gelida notte.
Anche Eli doveva essersene accorto, perché abbassò la mano e ricambiò lo sguardo dell’amico. In pochi istanti, l’emorragia si era placata – il sangue perso si asciugò sulla pelle – e della ferita non rimase che una piccola cicatrice, per poi scomparire anch'essa.
Il taglio era… scomparso.
Passarono diversi minuti accigliati, prima di riuscire a spiegarsi che cosa era successo. Era stato straordinario… ExtraOrdinario.
Eli sfregò il police sulla pelle fredda del palmo. Fu Victor il primo a parlare, e quando lo fece, fu con un’eloquenza ed una compostezza che si adattavano perfettamente alla situazione.
“P**** t****.”

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR fissò il punto in cui il riflesso delle sue labra si incontravano con la vista del tetto del palazzo in lontananza. Ogni volta che chiudeva gli occhi si sentiva come se stesse cadendo, così cercava di tenerli aperti, concentrandosi su qualsiasi cosa gli capitasse nel campo visivo.
“Vieni?” lo chiamò Eli.
Teneva la porta aperta, praticamente incerto se entrare nella stanza o meno. Lo zelo bruciava nei suoi occhi. E nonostante Victor non riuscisse a biasimarlo, non aveva alcun desiderio starsene a vedere Eli pugnalarsi da solo per tutta la notte. Lo aveva osservato per tutta la strada fino a casa, lasciando una traccia di sangue nella neve prima che le sue ferite potessero guarire. Conosceva le sue capacità, le aveva viste. Eli era un EO, in carne ed ossa. Victor aveva provato qualcosa quando Eli era tornato in vita senza cambiamenti apparenti: si era sentito sollevato. Con le nuove abilità che l’amico possedeva, il sollievo di Victor si era tramutato in un’ondata di panico. Sarebbe stato relegato per sempre alla figura del compare, lì a prendere appunti nel mentre sarebbe stato Eli quello ad agire.
No.
“Vic, allora, vieni oppure no?”
Un misto di curiosità e gelosia lo logoravano, e l’unico modo che aveva per soffocare entrambe era sopprimere l’impulso di voler ferire Eli di persona – o almeno provarci – era restargli alla larga.
Scosse la testa.
“Vai avanti,” disse, sforzandosi di sorridere. “Vai a giocare con i tuoi oggetti appuntiti. Io vado a fare una passeggiata.”
Scese le scale, quasi scivolando dopo la prima coppia di scalini.
“Sei sicuro di volerla fare, Vale?”
Victor gli fece cenno di tornare dentro all’appartamento. “Non intendo guidare. Vado solo a prendere un po’ d’aria.”
E detto ciò, ridiscese le scale verso l’oscurità e con due nuovi obbiettivi nella mente.
Il primo era semplice: prendere più distanze possibili da Eli prima di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito.
Il secondo sarebbe stato più complesso da attuare, e si sentì male a pensarci, ma non aveva altra scelta. Doveva pianificare il suo prossimo tentativo di morte.

 
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– CAPITOLO 18 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


Voglio credere che ci sia di più. Che potremmo essere di più. Diamine, potremmo essere eroi.
Il petto di Victor bruciò nel vedere il volto immutato di Eli nella foto del giornale. Era sconcertante, vedere lo stesso identico ricordo che aveva dell’Eli di dieci anni prima, sovrapposta ad un’altra come due diapositive. Era la stessa identica faccia… eppure non lo era. Gli anni avevano indurito Victor, ovviamente, ma sembravano non aver toccato Eli minimamente. Lui non era invecchiato, ma il sorriso arrogante che usava spesso mostrare durante il periodo universitario aveva lasciato il posto a qualcosa di più crudele. Come se quella maschera che aveva indossato per così tanto tempo fosse finalmente caduta, mostrando ciò che vi era veramente dietro.
E Victor, che era piuttosto bravo a distinguere le cose, a capire come funzionavano, come lavorava, guardava quella fotografia e si sentì… in conflitto. Odio era una parola troppo semplice. Lui ed Eli erano legati. E voleva vederlo soffrire. Voleva vedere nello sguardo di Eli il vero dolore. Voleva la sua attenzione.
Eli era come una spina nel fianco di Victor, e faceva male. Poteva spegnere tutti i nervi del suo corpo, ma non poteva ignorare quel dolore che sentiva solo quando gli capitava di pensare a Cardale. La cosa peggiore dell’essere intorpidito era che portava via tutto tranne che questo, il soffocante bisogno di sentirsi feriti, sensazione che rivestiva su di lui fino a farsi prendere dal panico pur di ricominciare ad avere sensazioni fisiche.
Ora che era così vicino, sentiva quella spina sempre più in profondità. Che cosa ci faceva Eli a Merit? Dieci anni erano un sacco di tempo. Un decennio può plasmare un uomo, mutandolo completamente. Victor era cambiato. Ed Eli? Lui chi era diventato?
Avvertì il bisogno improvviso di bruciare la foto, di distruggerla, come se danneggiandola potesse in qualche modo causare dei danni anche al soggetto che riportava, cosa ovviamente impossibile. Niente avrebbe potuto danneggiarlo.
Si sedette e accattonò l’immagine da parte, riponendola dove avrebbe faticato a raggiungerla, in modo tale da non finire per rovinarla.
Il giornale aveva definito Eli un eroe.
Quella parola divertì parecchio Victor. Non solo perché era assurdo, ma anche perché lo portò a porsi una domanda. Se Eli era l’eroe, e Victor intendeva fermarlo, questo faceva di lui il cattivo?
Bevve un lungo sorso del suo drink, inclinò la testa contro il divano e decise che – per quello - poteva farsene una ragione.

 
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– CAPITOLO 19 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND


QUANDO Victor tornò a casa il giorno seguente, trovò Eli seduto al tavolo della cucina, a tagliarsi. Era vestito con gli stessi abiti del giorno prima.
Victor recuperò una tavoletta di cioccolato e si sedette anche lui al tavolo, cercando di non prestare attenzione a quello che stava facendo Eli.
“Non dovresti andare all’ospedale oggi?” gli domandò Victor.
“Non è sicuro,” mormorò Eli con riservatezza nel mentre estraeva la lama dal braccio. La ferita guarì quasi nell’immediato, lasciando solo una breve traccia rossa e poi neppure quella, come una magia. “Non riesco ad impedire al tessuto di rigenerarsi.”
“Oh, poverino,” lo canzonò freddamente Victor. “Ora, se non ti dispiace…” mostrò la tavoletta di cioccolato scartata.
Eli fermò la lama a metà strada sul braccio. “Schizzinoso?”
Victor scrollò le spalle. “Mi distraggo facilmente,” sbottò. “Hai un aspetto orribile. Hai dormito? Mangiato?”
Eli sbatté le palpebre e mise da parte il coltello. “Ho avuto da pensare.”
“Il corpo non sopravvive di soli pensieri.”
“Ho riflettuto su questa abilità. La Rigenerazione.” I suoi occhi brillarono quando ne parlò. “Perché, tra tutti i possibili poteri, proprio questo? Forse non è stato un caso. Forse c’è una qualche correlazione tra le caratteristiche di una persona e l’abilità che può acquisire. Forse è un riflesso della propria psiche. Sto cercando di capirlo–” tese la mano sporca del sangue della ferita sull’altro braccio. “ – è un riflesso di ciò che sono. Altrimenti, perché mi avrebbe dato–”
“Chi?” chiese Victor incredulo. Non era in vena di parlare di Dio. N0n quella mattina. “Secondo la tua tesi,” disse, “sono stati l’afflusso di adrenalina e il desiderio di sopravvivere a dotarti di questa abilità. Non Dio. Non è stata una divinità, Eli. Sono state la scienza e la biologia.”
“Forse fino ad un certo punto, ma quando sono entrato in acqua, mi sono messo nelle Sue mani –”
“No,” sbottò Victor. “Ti sei messo nelle mie di mani.”
Eli rimase in silenzio, ma iniziò a tamburellare le dita sul tavolo. Dopo diversi secondi disse: “Ho bisogno di una pistola.”
Victor quasi non si soffocò con il pezzo di cioccolato che aveva iniziato a mangiare. “E per cosa?”
“Per testare veramente la velocità di rigenerazione, ovviamente.”
“Ovviamente.” Victor finì il suo spuntino mentre Eli si alzò dal tavolo per versarsi dell’acqua. “Ci stavo proprio pensando anch’io.”
“A cosa?” chiese Eli, appoggiandosi al bancone.
“Al mio turno.”
Eli aggrottò le sopracciglia. “C’è già stato.”
“Al mio prossimo turno,” specificò Victor. “Voglio provarci di nuovo questa sera.”
Eli osservò Victor, strabuzzando gli occhi. “Non credo sia una buona idea.”
“Perché no?”
Eli esitò. “Si vede ancora il segno che ti ha lasciato il braccialetto dell’ospedale,” disse infine. “Almeno aspetta finché non ti senti meglio.”
“Invero, mi sento bene. Anzi, meglio. Mi sento benissimo.”
Victor Vale non si sentiva realmente così. Gli dolevano i muscoli, e non riusciva a scrollarsi di dosso il mal di testa che lo aveva accompagnato da quando aveva aperto gli occhi sotto le luci abbaglianti dell’ospedale.
“Datti il tempo di riprenderti, ok?” insistette Eli. “E poi parleremo del provarci di nuovo.”
Non c’era nulla di sbagliato nelle sue parole, ma a Victor non piacque il modo in cui gliele aveva dette, lo stesso tono cauto che usavano le persone quando vogliono dissuadere qualcuno dal fare qualcosa senza dire un diretto ‘no’. C’era qualcosa di sbagliato. E l’attenzione di Eli stava già tornando verso i suoi coltelli. Lontano da Victor.
Strinse i denti sforzandosi di non imprecare. Poi si strinse nelle spalle.
“Bene,” disse, alzandosi e mettendosi la borsa in spalla. “Forse hai ragione,” aggiunse con uno sbadiglio ed un sorriso pigro. Eli ricambiò il sorriso e Victor si diresse prima verso il salone e poi verso la sua stanza.
Recuperò una pennetta di adrenalina lungo il percorso, poi si chiuse la porta dietro di sé.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR odiava la musica rumorosa quasi quanto odiava la folla di persone ubriache. La festa prevedeva entrambe le cose e furono rese ancora più insopportabile dalla sobrietà di Victor. Niente alcool, non questa volta. Voleva – aveva bisogno – di tutto per essere forte, specialmente se avrebbe dovuto farlo da solo. Eli era ancora presumibilmente nell’appartamento, a tagliarsi la pelle mentre pensava che Victor fosse nella sua stanza, imbronciato e probabilmente a studiare.
Quello che fece, invece, fu uscire dalla finestra.
Si sentì come se avesse avuto di nuovo quindici anni, un ragazzino che usciva furtivamente di casa per andarsene ad una festa notturna nel mentre i genitori se ne stavano in soggiorno a ridere per qualcosa di insensato visto alla TV. O almeno, Victor immaginava che era così che dovesse sembrare. Non aveva mai avuto nessuno a casa con lui che potesse dissuaderlo dal fare qualcosa.
Victor passò attraverso la festa in gran parte inosservato. Non frequentava spesso quegli ambienti, e quando lo faceva preferiva rimanersene in disparte a guardare, e la maggior parte degli altri presenti sembrava bendisposta a lasciarglielo fare.
Ma eccolo lì, a farsi strada tra le persone e la musica, la pennetta di epinefrina infilata nella tasca interna del cappotto, un piccolo Post-it su di essa con scritta la parola ‘Usami’. Ora, mentre si trovava circondato da luci, rumori e corpi, Victor si sentì come se avesse vagato in un altro mondo. Era questo che fanno normalmente i seniors? Bere e ballare in modo da soffocare i propri pensieri? Angie lo aveva portato ad alcuni incontri qualche volta quando erano delle matricole, ma quelle erano state diverse. Non riusciva a ricordare precisamente niente di quelle serate, se non lei. Victor cercò di scacciare via quelle memorie. Il sudore gli rivestì le mani nel mentre recuperava un bicchiere di plastica e riversò il suo contenuto dentro un vaso con dentro una pianta avvizzita. Tenere qualcosa in mano lo fece sentire meglio.
Ad un certo punto, si ritrovò sul balcone, ad osservare il lago ghiacciato oltre i cespugli. Quella vista lo fece rabbrividire. Sapeva che per ottenere i risultati ottimali avrebbe dovuto imitare Eli, ricreare lo stesso scenario, ma Victor non poteva – non voleva – farlo. Doveva trovare il proprio metodo.
Premette le mani contro la ringhiera e tornò di nuovo all’interno della casa. Mentre proseguiva il suo percorso attraverso le stanze ed i corridoi, i suoi occhi osservarono valutando varie opzioni. Rimase sbalordito di quanto fossero infinite le opzioni per un suicidio, e tuttavia di quanto fossero limitate le possibilità di riuscire a sopravvivere.
Ma Victor era certo di una cosa: non se ne sarebbe andato senza prima affrontare il suo turno. Non sarebbe tornato all’appartamento e non avrebbe guardato di nuovo Eli ferirsi felicemente la pelle, meravigliato da quella sua strana nuova immortalità. Victor non sarebbe rimasto lì a parlare e prendere appunti per lui. Victor Vale non era un fo****o aiutante.
Al suo terzo giro intorno alla casa, aveva recuperato abbastanza cocaina da provocarsi un arresto cardiaco. Aveva dovuto comprarla da tre studenti diversi, dal momento che ognuno di loro ne aveva poca con sé. Fece un ulteriore giro della residenza, nel mentre cercava il coraggio di usarla. Sentì la porta aprirsi – anche se era difficile dirlo con tutta quella musica ad alto volume. In quel momento si trovava sulle scale, e sentì un improvviso senso di freddo.
Una ragazza strillò: “Eli! Ce l’hai fatta!”
Victor imprecò a bassa voce, e si ritirò rapidamente su per le scale. Sentì il proprio nome nel mentre si faceva strada tra le persone. Attraversò il pianerottolo e raggiunse anche quello del secondo piano, poi trovò una camera da letto libera con un bagno proprio sul retro. A metà strada – nel mezzo della stanza – si fermò. Una libreria fiancheggiava una parete e lì, al centro, il suo cognome scritto in lettere maiuscole lo colpì.
Prese il massiccio libro di self-help e aprì la finestra. Il sesto libro di una serie di nove sull’azione emotiva e sulla reazione colpì il sottile strato di neve sottostante con un sonoro tonfo. Victor chiuse la finestra e si nascose nel bagno.
Sistemò tutto il necessario sul lavandino.
Per prima cosa, il suo cellulare. Scrisse un messaggio per Eli, ma senza inviarlo e lasciò il dispositivo lì di fianco. Secondo, la pennetta di adrenalina. Se l’avesse utilizzata con la temperatura giusta, sperava sarebbe bastata una singola iniezione diretta. Posò l’ago accanto al telefono. In terzo luogo, la cocaina. La sistemò in una fila ordinate e cominciò a separarla in line con una tessera di un hotel, un ricordo del viaggio fatto con i suoi genitori quell’inverno. Nonostante un’educazione che avrebbe spinto la maggior parte dei bambini a fare uso di droga, Victor non era mai stato molto propenso a drogarsi, ma sapeva come fare, grazie ad una sana passione per i drammi criminali. Una volta che la cocaina sarebbe stata nelle sue vene – sette bustine – tirò fuori un dollaro dal suo portafoglio e lo arrotolò fino a formare una cannuccia, così come aveva visto in TV.
Guardò poi verso lo specchio.
“Tu vuoi vivere,” disse al proprio riflesso, il quale non sembrava del tutto convinto. “Devi farcela, sopravvivere,” insistette. “Ne hai bisogno.”
Prese un respiro profondo e si chinò sulla prima linea di cocaina.
Un braccio spuntò dal nulla e gli si avvolse intorno al collo e lo sbatté contro il muro. Victor recuperò l’equilibrio e si raddrizzò giusto in tempo per vedere Eli passare una mano attraverso alcune centinaia di dollari di sostanze stupefacenti, spazzolandoli tutti nel lavandino.
“Che diamine fai?” Sibilò Victor, lanciandosi verso le sue finanze prima di perderle del tutto. Non fu abbastanza veloce. Il palmo di Eli, impolverato di coca, lo spinse di nuovo indietro, inchiodandolo al muro, lasciandogli un’impronta bianca sulla maglietta nera.
“Che diamine,” lo canzonò Eli con calma scioccante. “Che diamine?”
“Non dovresti essere qui.”
“Sei venuto ad una festa, e la gente se ne è accorta. Ellis mi ha scritto un messaggio non appena ti ha visto. E poi Max mi ha scritto che gli hai comprato della cocaina. Non sono un’idiota. Che cosa pensavi di fare?” La sua mano libera afferrò il cellular sul lavandino. Lesse il messaggio. Emise un suono simile ad una risata incredula, ma le sue dita si strinsero intorno alla gola di Victor, mentre l’altra lanciava il telefono nella doccia, dove si ruppe in tantissimi pezzi nell’impatto.
“E se non avessi sentito il mio telefono?” chiese lasciandolo andare. “Che cosa avresti fatto?”
“Allora sarei morto,” decretò Victor con calma apparente. I suoi occhi si spostarono verso l’EpiPen. Anche Eli spostò la sua attenzione lì, e prima che Victor potesse fare qualcosa, afferrò la pennetta e la scagliò contro la propria gamba. Gli sfuggì un piccolo sussulto nel mentre il contenuto si riversava nel suo sistema nervoso, scuotendo polmoni e cuore, ma dopo pochi attimi si riprese.
“Sto solo cercando di proteggerti,” disse Eli, gettando da parte la cartuccia usata.
“Ma che eroe,” ringhiò Victor sottovoce. “Fo***ti.”
Eli lo guardò dritto negli occhi. “Non ti lascerò qui da solo.”
Victor ricambiò lo sguardo, per poi osservare il bordo ancora spolverato di cocaina.
“Ci vediamo di sotto,” disse, poi indicò la propria maglietta, il cellulare e il bordo del lavandino. “Devo dare una pulita.”
Eli non si mosse.
Gli occhi freddi di Victor risalì per incontrare quelli di Eli. “Non ho nient’altro con me.” Poi, si sforzò a sorridere. “Perquisiscimi se vuoi.”
Eli emise un rumore a metà tra una risata e della tosse, ma il suo sguardo si fece serio. “Non è questo il modo di farlo, Vic.”
“Come lo sai? Solo perché il ghiaccio ha funzionato per te, non significa che non ci sia nient’altro che funzioni –”
“Non parlo del metodo. Intendo, da solo.” Appoggiò la mano pulita sulla spalla di Victor. “Non puoi farlo da solo. Quindi promettimi che non lo farai.”
Victor sostenne il suo sguardo. “Non lo farò.”
Eli lo superò, tornando nella camera da letto.
“Cinque minuti,” gli concesse nel mentre se ne andava.
Victor sentì i rumori della festa nel momento in cui Eli apriva la porta, attutendoli nuovamente una volta uscito, sbattendosi la porta alle spalle. Victor si avvicinò al lavandino e fece passare la mano sotto il getto d’acqua. Racchiuse le dita a pungo e colpì lo specchio – nel quale si formò una grossa crepa, ma non si spezzò. Cercò un asciugamano nel mentre asciugava la polvere più persistente. Le sue dita incontrarono qualcosa, e un’improvvista scossa di dolore lo colpì. La ritrasse, e si voltò per notare una presa sul muro, un fogliettino attaccato lì accanto avvertiva di non toccarla.
Victor si accigliò, con le dita che formicolavano a causa della scossa.
E poi si bloccò. L’aria nei suoi polmoni, l’acqua nel lavandino, il vento fuori dalla finestra dell’altra stanza.
Gli venne un’idra. Recuperò i pezzi del suo cellulare dalla doccia e cercò di ricomporre i pezzi. Riuscì ad accenderlo e digitò un messaggio. Victor aveva promesso che non lo avrebbe fatto da solo. E non lo avrebbe fatto. Ma non aveva bisogno dell’aiuto di Eli.
‘Salvami,’ scrisse nel messaggio.
Poi lo inviò.

 
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– CAPITOLO 20 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


DAL fondo del corridoio e oltre la porta, Sydney Clarke giaceva raggomitolata in un nido di lenzuola. Aveva ascoltato i passi di Victor nell’altra stanza, lenti e morbidi. Aveva sentito il rumore di vetro che si frantumava e dell’acqua che scorreva nel rubinetto. Aveva sentito il passo pesante di Mitch, i toni della conversazione che i due avevano avuto, anche se attutita dalle pareti. Aveva sentito Mitch ritirarsi nuovamente in fondo al corridoio. Poi, fu tutto tranquillo. Sentiva solo alcuni movimenti di Victor di tanto in tanto.
Sydney non si fidava della calma. Era arrivata a pensare che fosse una cosa totalmente negativa. Una cosa sbagliata, innaturale, morta. Si mise a sedere, poi si allungò verso la porta, allungandosi per sentire meglio. Quando ancora non percepì nulla, scivolò fuori, nell’ampio soggiorno della suite dell’hotel.
La mano fasciata di Victor era accasciata lungo il bracciolo di uno dei divani rivolto verso le finestre, un bicchiere praticamente vuoto gli penzolava tra le dita. Sydney camminò in punta di piedi per non doverlo affrontare.
Sembrava stesse dormendo.
Non sembrava stare facendo dei sogni tranquilli, ma il suo respiro era comunque calmo.
Sydney si appollaiò su una sedia e osservò l’uomo che l’aveva salvata… no, si era salvata da sola. Meglio dire, l’uomo che l’aveva trovata, prendendola con sé. Si domandò chi fosse e se avesse dovuto in qualche modo avere paura di lui. Non si sentiva spaventata, ma Sydney sapeva che non doveva comunque fidarsi con troppa facilità. Non aveva avuto paura di sua sorella, Serena, e nemmeno del suo nuovo fidanzato, eppure… guarda come si erano evolute le cose.
Le avevano sparato.
Scese dalla sedia e si portò più vicina, su una poltrona di pelle, e continuò a studiare Victor, come se in questo modo sarebbe potuta riuscire a scoprire tutto ciò che nascondeva.

 
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view post Posted on 23/3/2018, 15:10
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– CAPITOLO 21 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND



DURANTE il primo anno, prima che Eli avesse mai messo piede nel campus, Angie era stata attratta da Victor. In qualche modo erano l’uno l’opposto dell’altra – Angie non sembrava prendere niente sul serio, e Victor sembrava non prendere nulla alla leggera – ma erano simili sotto altri aspetti; entrambi giovani, pericolosamente intelligenti e privi di pazienza quando si trattava della solita folla universitaria e delle loro avversioni nei confronti dei genitori. A causa dei loro sentimenti similari, Victor ed Angie si erano trovati in sintonia nel fuggire da situazioni nelle quali non avrebbero voluto essere, da persone con le quali avrebbero preferito non stare.
E così, un giorno, seduti nella sala mensa, avevano escogitato un messaggio criptato abbastanza rudimentale.
Salvami.
Il codice era stato creato con l’idea di usarlo con parsimonia, ma sempre rispettato. Salvare prima, fare domande più tardi. Quando veniva inviato un messaggio con un indirizzo, significava che uno dei due aveva disperatamente bisogno che l’altro lo salvasse, sia da una festa, da una sessione di studio o da un appuntamento disastroso. Victor non aveva mai avuto il lusso di avere un appuntamento con Angie, disastroso o meno, a meno che non si contasse le volte che avevano mangiato insieme dopo essersi salvati a vicenda. Le notti trascorse nello stesso ristorante fuori dalla zona universitaria a riempirsi di frullati e patatine a raccontarle degli idioti che frequentavano il suo stesso corso di studio. Lei rideva e finiva parlando di quanto fosse stato goffo il suo appuntamento. Victor alzava gli occhi al cielo quando a lei capitava di menzionare delle offese poco carine, pensando a come lui avrebbe agito diversamente e a quanto fosse grato che qualcuno – chiunque – avesse spinto Angie Knight a voler essere salvata. E da lui.
Salvami.
Era passato quasi un anno e mezzo da quando Victor aveva pensato di usare quel codice. L’ultima volta era stato prima di Eli – e certamente prima che Eli ed Angie fossero diventati una sola entità – ma lei arrivò comunque a salvarlo.
Fermò la macchina davanti alla casa della confraternita, proprio dove Victor la stava aspettando dopo essersi calato dalla stessa finestra dalla quale aveva gettato il libro scritto dai suoi genitori. E per un momento, un singolo istante, dopo essere salito in macchina e prima che spiegasse, era come se fosse tornato ad essere una matricola, solo loro due in fuga da una brutta serata, e lui voleva così tanto rimanere in silenzio fino ad arrivare al loro solito fast-food. Sarebbero rimasti accasciati suoi sedili, avrebbero riso, e in qualche modo sarebbe andato tutto quanto a posto.
Ma poi lei domandò dove fosse Eli e quel momento passò. Victor chiuse gli occhi e le chiese di accompagnarlo ai laboratori di ingegneria.
“Sono chiusi,” sbottò lei mentre guidava l’auto in quella direzione.
“Tu hai la carta magnetica.”
“E cosa devi fare?”
Victor si sorprese nello scoprire di volerle dire la verità. Sapeva della tesi di Eli, ma le raccontò della loro scoperta più recente, del ruolo delle NDE. Le raccontò del suo desiderio di testare la teoria, rivelandole il suo piano. L’unica cosa che tralasciò di dirle era che Eli lo aveva già fatto con successo.
Angie rimase in silenzio guidava, le nocche sbiancate nello stringere il volante, le labbra strette, mentre lasciava parlare Victor. Lui finì proprio mentre entravano nel parcheggio dei laboratori di ingegneria, e non disse nulla finché non ebbe parcheggiato, spento il motore e si mise comoda sul sedile per affrontarlo.
“Sei andato fuori di testa?” gli chiese.
Victor sorrise. “Non credo.”
“Fammi capire bene,” disse lei. I suoi capelli corti e rossi le incorniciavano il viso. “Pensi che morendo e tornando in vita, tu riesca a diventare uno degli X-Men?”
Victor rise. Gli si inaridì la gola. “Speravo qualcosa che si avvicini a Magneto.” Il tentativo di alleggerire la situazione fallì miseramente, a giudicare dallo sguardo a metà tra lo sconvolgimento e l’orrore sulla faccia di Angie.
“Ascolta,” disse lui, riflettendo. “So che sembra assurdo –”
“Certo che lo sembra. È assurdo. Da pazzi. E non ho intenzione di aiutarti a farlo.”
“Non voglio morire.”
“Mi hai appena detto di volerti uccidere.”
“Beh, non tanto da rimanerci secco.”
Lei si stropicciò gli occhi, appoggiò la fronte al volante ed emise un gemito.
“Ho bisogno di te, Angie. Se non mi aiuterai –”
“Non osare rigirare la frittella in questo modo –”
“ – proverò a farlo di nuovo da solo –”
Di nuovo?
“ – facendo qualcosa di stupido di cui non mi pentirò.”
“Possiamo trovare qualcuno che ti aiuti.”
“Non sono un suicida.”
“No, ma sei uscito di senno.”
Victor inclinò la testa contro il sedile. Qualcosa vibrò nella sua tasca. Eli. Lo ignorò, sapendo che non importava dal momento che Eli avrebbe comunque contattato Angie a momenti. Non aveva molto tempo. Di certo, non abbastanza per convincerla ad aiutarlo.
“Perché non puoi solo…,” mormorò Angie ancora contro il volante, “… non so, un’0verdose? Fare qualcosa di tranquillo e pacifico?”
“È importante che sia doloroso,” spiegò Victor, trasalendo interiormente. Non era troppo arrabbiata per quello che stava facendo, allora. Solo per il fatto che stesse cercando di coinvolgerla. “Dolore e paura,” aggiunse. “Sono entrambi dei fattori importanti. Diamine, Eli si è ucciso in una vasca da bagno piena di ghiaccio.”
Che cosa?
Un sorriso triste e trionfante gli si formò sulle labbra. Victor sapeva che Eli non lo aveva ancora detto ad Agnie. Ci contava. Il senso di tradimento si fece largo nello sguardo della ragazza. Scese, sbatté lo sportello e vi ci si accasciò contro. Victor la seguì, lasciando le proprie impronte sulla neve ora più fitta. Osservò per un attimo il cellulare di lei, lasciato sul sedile del conducente. Una luce rossa lampeggiò, ma Victor non disse nulla e rivolse la propria attenzione ad Angie.
“Quando è successo?” domandò lei.
“La scorsa notte.”
La ragazza teneva lo sguardo fisso verso la neve sull’asfalto.
“Ma quando l’ho visto questa mattina, Vic. E stava bene.”
“Esattamente. Perché ha funzionato. Funzionerà anche per me.”
Lei gemette. “È pazzesco. Sei matto.”
“Sai che non è così.”
“Perché dovrebbe…”
“Non ti ha detto proprio niente?” la punzecchiò Victor, rabbrividendo sotto la sua giacca leggera.
“Si è comportato in modo strano ultimamente,” borbottò. Poi la sua attenzione si restrinse su argomento preciso. “Quello che mi stai chiedendo di fare… è da matti. È tortura.”
“Angie…”
Lei alzò lo sguardo, gli occhi fiammeggianti. “Nemmeno ti credo, ma cosa succederebbe se qualcosa andasse storto?”
“Non succederà.”
“Ma se succedesse?”
Il suo telefono vibrò insistentemente nella sua tasca.
“Non può,” insistette con più calma possibile. “Ho preso una pillola.”
Angie aggrottò le sopracciglia.
“Eli ed io,” iniziò a spiegare lui, “abbiamo isolato alcuni composti adrenalinici che si attivano durante delle determinate situazioni. Le abbiamo estrapolate e questa pillola essenzialmente agisce come attivatore.”
Era tutta una bugia, ovviamente, ma osservò che la finta esistenza di questa pillola ebbe un qualche impatto su Angie. La scienza, anche quella completamente inventata, faceva il suo effetto. Angie imprecò e infilò le mani nelle tasche della giacca.
“Cavolo, fa freddo,” mormorò, iniziando a dirigersi verso la porta principale dell’edificio. Il laboratorio di ingegneria era di per sé un problema, Victor lo sapeva. C’erano delle videocamere di sicurezza. Se qualcosa fosse andato storto, ci sarebbe stato un filmato come prova.
“Dov’è Eli adesso?” chiese lei mentre passava la sua carta d’accesso nel meccanismo di apertura. “Se state lavorando insieme a questa cosa, perché sei venuto qui con me?”
“È impegnato ad assaporare il suo nuovo status di divinità,” disse Victor amaramente, seguendola attraverso l’ingresso, scrutando il soffitto con gli apparecchi di registrazione. “Ascolta, tutto quello che ti chiedo di fare è di usare l’elettricità per mettermi fuori gioco. La pillola farà il resto.”
“Studio le correnti e gli effetti sui dispositivi, Victor, non le persone.”
“Un corpo è esattamente come una macchina,” disse lui piano. Lei si fece strada attraverso uno dei laboratori di ingegneria elettronica e azionò un interruttore. Metà delle luci si accesero. L’attrezzatura era accatastata lungo una parete: diverse varie macchine, alcune dall’aspetto di macchine mediche o altre tipologie. La stanza era piena di banconi, lunghi e sottoli ma abbastanza grandi per appoggiarci un corpo. Notò Angie vacillare accanto a lui.
“Dovremmo pianificare le varie fasi del piano per bene,” disse. “Dammi un paio di settimane, e forse potrei riuscire a modificare alcune delle attrezzature per –”
“No,” ribatté Victor, avvicinandosi alle macchine. “Devo farlo questa sera.”
Lei sembrava atterrita, ma prima che potesse protestare, lui proseguì ad elaborare la sua bugia.
“Questa pillola di cui ti ho parlato… L’ho già presa; e non è come un interruttore, che si accende o si spegne a seconda di come sta il corpo.” Incrociò il suo sguardo, lo sostenne e pregò in silenzio che lei non avesse la minima conoscenza del campo chimico.
“Se non lo faccio presto, Angie –” improvvisò una smorfia teatrale “– il composto mi ucciderà.”
Lei impallidì.
Lui trattenne il respiro. Il suo cellulare vibrò nuovamente.
“Quanto tempo abbiamo?” domandò lei infine.
Fece un passo verso di lei, lasciando che una delle gambe si piegasse sotto ad un qualche sforzo immaginario. Si aggrappò al bordo del bancone più vicino con una smorfia, e trovò il suo sguardo mentre il ronzio nella sua tasca si fermava.
“Alcuni minuti.”

♦ ♦ ♦ ♦ ♦


“È pazzesco,” mormorò Angie nel mentre aiutava Victor, legandogli le gambe sul tavolo.
Victor temeva che anche adesso, con le macchine lì intorno che si accendevano e le sue gambe legate con un cinturino di gomma intorno alle caviglie, lei potesse tirarsi indietro, così raddoppiò la manifestazione del suo finto dolore, raggomitolandosi su sé stesso.
“Victor,” disse lei con urgenza. “Victor, stai bene?” C’era del panico vero nella sua voce e lui dovette trattenere l’impulso di fermarsi con quella finta, di calmarla e promettere che sarebbe andato tutto bene.
Invece annuì e la intimò a denti stretti: “Sbrigati.”
Lei si affrettò a finire di legarlo, gli mostrò le barre rivestite di gomma sul tavolo dove poteva mettere le mani. Il suo cespuglio di capelli rossi era sempre sembrava elettrizzata, ma quella sera sembrava ancora più frastagliati. La faceva sembrare ancora più ossessionata. Bellissima. Il primo giorno che l’aveva conosciuta, aveva un aspetto più o meno così. Era stato caldo, per essere settembre; le sue guance erano arrossate e i suoi capelli avevano avuto come una vita propria. Lui aveva alzato lo sguardo dal suo libro di testo e la vide, in piedi vicino all’ingresso della sala mensa, stringendo una cartellina mentre i suoi occhi vagavano per la sala persi ma indifferenti. Poi aveva posato lo sguardo sul tavolo dove era seduto Victor e il suo sguardo si illuminò. Attraversò la stanza e scivolò senza preambolo nella sedia di fronte a lui. Non parlarono nemmeno, quel primo giorno.
“Victor.” La voce di Angie che pronunciava il suo nome lo riportò su quel freddo tavolo del laboratorio.
“Voglio che tu sappia,” disse lei mentre iniziava a sistemare i sensori sul suo petto, “che non ti perdonerò mai per questo.”
Lui rabbrividì sotto il suo tocco. “Lo so.”
La sua giacca ed la maglietta erano gettate su una sedia, con in cima il contenuto delle sue tasche. Tra le chiavi, il portafoglio e la tessera del laboratorio di specializzazione medica, c’era il suo telefono con la suoneria spenta, ma lo schermo che si illuminava lampeggiando ogni tanto, segnando l’arrivo di messaggi sia scritti che vocali.
Victor sorrise cupamente. Troppo tardi, Eli. Adesso è il mio turno.
Angie era in piedi accanto ad uno dei macchinari, in attesa. La macchina stessa stava ronzando. Lo sguardo di lei venne catturato da qualcosa, lei lo afferrò e tornò indietro verso di lui. Era un altro nastro di gomma.
“Sai cosa fare,” le disse Victor, sorpreso dalla calma nella sua voce. “Inizia con delle scariche basse, poi aumentale di grado.”
“Spegnere e accendere,” rifletté lei in un sussurro, prima di posizionargli il nastro sulla bocca. “Cerca di morderlo, e non ti ferirai la lingua.”
Victor fece un ultimo respiro profondo e si sforzò di aprire la bocca. Poteva farcela. Se ce l’aveva fatta Eli, ci sarebbe riuscito anche lui.
Angie tornò al macchinario. I loro sguardi si incontrarono e per un istante tutto il resto svanì: il laboratorio, le macchine ronzanti, l’esistenza degli EO, di Eli e di tutti quegli anni trascorsi da quando Victor ed Angie avevano condiviso un milkshake – e lui era semplicemente felice che lei lo avesse guardato di nuovo. Che lo avesse visto.
Poi, lei chiuse gli occhi, e azionò il quadrante con un solo tocco, e l’unica cosa a cui Victor riuscì a pensare fu il dolore.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦


VICTOR rimase disteso sul tavolo sudando freddo.
Non riusciva a respirare.
Ansimò, aspettandosi una pausa, un momento per riprendersi. Aspettandosi che Angie cambiasse idea, si fermasse, si arrendesse.
Ma Angie riattivò la scarica.
Morse il cinturino di gomma così forte che quasi non pensò che i suoi denti si sarebbero spezzati, facendosi sfuggire un altro gemito. Pensò che Angie lo avesse sentito, dal momento che spense la macchina, ma subito dopo la riaccese.
E di nuovo.
Poi, ancora.
Victor pensò che sarebbe svenuto, ma prima che potesse farlo, la scarica si azionò di nuovo e lo spasmo di dolore lo fece rimanere cosciente, ancora sul tavolo nel bel mezzo della stanza, senza possibilità di ignorarlo.
Il dolore lo mantenne lì, attraversando ogni nervo di ogni arto.
Cercò di levarsi cinturino di gomma, ma non riuscì ad aprire la bocca. La sua mascella era bloccata.
Un’altra scossa.
Ogni volta che Victor pensava che il livello di scarica non potesse andare oltre, il dolore non faceva che peggiorare e Victor non poteva fare altro che urlare nonostante la gomma tra i denti e sentire ogni nervo del suo corpo spezzarsi. Avrebbe voluto che si fermasse. Avrebbe voluto che le sue parole non venissero interrotte dal cinturino e che non giungessero nuove scariche.
L’oscurità lo circondò e in un primo momento la accolse con piacere, perché voleva dire che il dolore si sarebbe fermato, ma allo stesso tempo non voleva morire, per cui la temeva e cercò di allontanarvisi violentemente.
Altra scarica.
Le sue mani dolevano, strette al tavolo.
Altra scarica.
Desiderò per la prima volta nella sua vita credere in Dio.
Altra scarica.
Sentì il suo cuore saltare un battito, lo sentì vacillare e poi velocizzare.
Altra scarica.
E tutto si fermò.

 
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– CAPITOLO 22 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


SYDNEY osservò le rughe espressive sul viso di Victor. Doveva stare sognando.
Era tardi. L’ambiente notturno al di là del vetro era completamente buio. Lei si alzò e si stiracchiò con l’intenzione di tornare a letto, quando vide un pezzo di carta, e tutto si fece freddo.
L’articolo di giornale era aperto sul divano accanto a Victor. Le pesanti strisce nere sulla pagina furono la prima cosa che catturò la sua attenzione, ma fu la foto in basso ciò che la colpì. Il cuore di Sydney saltò un battito e per un istante le mancò il respiro. Le sembrava di stare annegando, di nuovo. Serena che la chiamava dal patio, con un cestino da picnic tra le braccia e il suo cappotto invernale, che le diceva di sbrigarsi o altrimenti il ghiaccio si sarebbe sciolto, cosa che avvenne – ma quando chiuse gli occhi, non vide lo strato ghiacciato dell’acqua del lago, ma il ricordo del campo dell’anno seguente, il tratto di erba ghiacciata, il cadavere, l’incoraggiamento della sorella e poi il suono dello sparo che le riecheggiava nelle orecchie.
Due giorni diversi, due morti diverse, sovrapposte, che turbinarono insieme. Scacciò via entrambi i ricordi, ma la foto era ancora lì e non riusciva a distogliere lo sguardo. Prima che potesse rendersene conto, allungò la mano oltre Victor, verso la carta e l’uomo sorridente stampatovi sopra.
Successe tutto così in fretta.
Le dita di Sydney si arricciarono intorno alla pagina del giornale, ma quando la sollevò, l’avambraccio sfiorò il ginocchio di Victor e prima che lei potesse tirarsi indietro, gli occhi dell’uomo si spalancarono vuoti, una mano le si strinse intorno al polso. Senza preavviso, il dolore le risalì il braccio. Fu peggio di annegare, peggio di venire sparata, peggio di qualsiasi cosa che avesse mai sentito. Era come se tutti i suoi nervi stessero andando in frantumo, e Sydney fece l’unica cosa di cui era capace.
Urlò.

 
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– CAPITOLO 23 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND


IL DOLORE lo ridestò di nuovo, e Victor gridò.
Angie stava armeggiando con le mani, cercando di liberarlo dalle sue costrizioni. Lui cercò di sollevare la testa. Perché l’elettricità era ancora in funzione? Il dolore lo colpì come delle onde, avvolgendogli i muscoli e il cuore. La sua pelle si stava lacerando, e Angie gli stava dicendo qualcosa che però non riuscì a capire. Non appena ne ebbe la possibilità, si raggomitolò su sé stesso e soffocò un altro urlo.
Perché il dolore non cessava? PERCHÉ NON SI FERMAVA?
Poi, all’improvviso, come spento da un interruttore, il dolore scomparve, e Victor sentì… il nulla. Le macchine erano spente, così come le luci. Angie stava ancora parlando facendogli correre le mani sulla pelle, slacciando l’ultima cinghia alla caviglia, ma Victor non le diede retta continuando a fissarsi le mani e sentendo un improvviso senso di vuoto, come se l’elettricità avesse sventrato completamente i suoi nervi.
Vuoto.
Dov’era andato? Sarebbe tornado?
Nell’improvvisa assenza di dolore, si ritrovò a cercare di ricordare come ci si sentiva, a combattere quella sensazione di essere come un’ombra di sé stesso, e mentre fece scattare nuovamente l’interruttore, l’energia si riaccese, scoppiettante come se fosse statica attraverso la stanza. Sentì nuovamente la densità dell’aria, poi un urlo. Si chiese per un istante se fosse il suo, ma adesso Victor non provava più dolore, le scariche erano come al di fuori di lui, oltre alla sua pelle, senza toccarlo.
Si sentiva lento, stordito, mentre cercava di elaborare la situazione. Nessun dolore, quindi chi era che urlava? E poi un corpo si accasciò sul pavimento del laboratorio accanto al bancone sul quale stava lui, e subito realizzò.
Angie. No. Saltò giù, per ritrovarla a contorcersi sul pavimento, ancora urlando dal dolore e lui pregò che la situazione si fermasse. Ma il ronzio elettrico continuò in un ronzio crescente intorno a lui. ‘Fermati.’
Lei si strinse le mani al petto.
Victor cercò di aiutarla, ma Angie gridò ancora più forte quando la toccò. Incespicò indietro, bloccato dal panico e dalla confusione. Il ronzio, rifletté. Doveva farlo smettere. Chiuse gli occhi e cercò di immaginarlo come un quadrante di avvio, cercò di farlo sempre più abbassare. Provò a raggiungere un senso di calma, nonostante la situazione caotica. Poi, si rese conto di quanto fosse orribilmente silenziosa la stanza.
Victor aprì gli occhi e vide Angie distesa sul pavimento, la testa indietro, gli occhi aperti, i rossi capelli come una nuvola intorno al viso. Il ronzio nell’aria si era tramutato in un formicolio fino a poi svanire completamente, ma fu comunque troppo tardi.
Angie Knight era morta.

 
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– CAPITOLO 24 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


LA stanza dell’albergo venne riempita dal rumore e dal caos.
Victor si ritrovò intontito, intrappolato a metà tra il laboratorio scolastico e la stanza d’albergo, l’urlo di Angie nella sua testa si mischiò a quello di Sydney nelle sue orecchie. Sydney? La ragazzina non era da nessuna parte che potesse vedere, e lui era inchiodato contro il divano da Mitch, tremante visivamente dallo sforzo, ma comunque riluttante dal lasciarlo andare.
“Fallo smettere,” ringhiò Mitch sottovoce e Victor si svegliò del tutto. I suoi occhi si socchiusero, i ronzii si spensero e la stretta di Mitch si allentò. Lasciò andare le spalle di Victor e si lasciò cadere su una sedia.
Victor respirò profondamente e in modo costante, passandosi una mano sul viso e poi scostandosi i capelli, prima di riportare la propria attenzione su di Mitch.
“Stai bene?” gli chiese.
Mitch sembrava stanco ma sembrava stare bene. Non era la prima volta che interveniva in una situazione del genere. Victor sapeva che quando faceva dei brutti sogni, le altre persone finivano sempre per soffrirne le conseguenze.
“Io sto bene,” rispose Mitch, “ma non posso dire lo stesso per lei.” Indicò una piccola figura vicina in una felpa troppo grande, e lo sguardo di Victor si spostò su Sydney, seduta sul pavimento e stordita. Si era bloccato non appena si era reso conto di quello che stava succedendo, quindi era in grado di sapere che stava fisicamente bene, ma la piccola sembrava comunque scossa. Victor provò una fitta di colpa, qualcosa di così estraneo dopo un decennio in prigione.
“Mi dispiace,” si scusò tranquillamente. Fece per allungare una mano per aiutarla, ma poi pensò che fosse meglio di no. Invece, si alzò e si diresse verso il bagno.
“Mitch,” chiamò. “Accompagnala a letto.”
E detto ciò, si chiuse la porta alle spalle.

 
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view post Posted on 31/3/2018, 19:36
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– CAPITOLO 25 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND


VICTOR non rianimò Angie. Non ci provò neanche. Sapeva che avrebbe dovuto, o che avrebbe voluto provarci, ma l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di rimanere troppo tempo sulla scena del crimine. Deglutì a fatica, rabbrividendo per la sua capacità di essere così razionale in un momento del genere. Inoltre, aveva potuto avvertire che non c’era più niente da fare, che Angie era definitivamente mora. Nessuna energia in corpo.
Così, fece l’unica cosa che gli venne in mente di poter fare. Chiamò Eli.
“Dove diamine sei, Vale?” La portiera di una macchina sbatté in sottofondo. “Pensi che sia divertente–”
“Angie è morta.”
Victor non era sicuro di averlo effettivamente detto o meno. Si era aspettato che quelle parole gli avrebbero seccato la gola, uscendo con difficoltà, e invece niente. Sapeva che sarebbe dovuto essere in preda al panico, ma si sentiva solo intorpidito, cosa che lo faceva sentire calmo. Doveva essere sconvolgente, si domandò, il fatto che era stato così facile il ripetere il nome di Angie ora che era morta ai suoi piedi? Ascoltò in silenzio l’altro capo del telefono finché Eli non lo ruppe. “ComE?” Ringhiò.
“È stato un incidente,” si affrettò a dire Victor, nel mentre recuperava la sua maglia. Aveva dovuto oltrepassare il cadavere dell’amica per raggiungerla. Cercò di non guardarla.
“Che cosa hai fatto?”
“Mi stava aiutando con un test. Ho avuto un’idea, ha funzionato e –”
“Che cosa vuoi dire con ‘ha funzionato’?” Il tono di Eli si raffreddò.
“Voglio dire… voglio dire che questa volta ha funzionato.” Stava ancora cercando di assimilare la cosa. Eli capì chiaramente, perché rimase in silenzio. Victor aveva la sua attenzione, e gli piaceva. Ma era sorpreso dal fatto che Eli sembrasse più interessato al suo esperimento che ad Angie. Angie, che l’aveva sempre tenuto a bada, che si era sempre intromessa. No, doveva essere stata una distrazione per entrambi, giusto? Victor guardò il suo copro, aspettandosi di sentire quel senso di colpa che lo aveva investito prima, quando le aveva mentito, ma non provò nulla del genere. Si chiese se anche Eli avesse sentito quello strano distacco quando si era risvegliato sul pavimento del bagno. Come se niente importasse davvero qualcosa.
“Dimmi che cosa è successo,” insistette Eli, perdendo la pazienza.
Victor osservò la stanza, il tavolo, le cinghie, i macchinari che adesso sembravano bruciati. L’intero posto era buio.
“Dove ti trovi?” sbottò Eli quando Victor non rispose.
“Ai laboratori,” rispose lui. “Eravamo…” un dolore improvviso giunse dal nulla. Il suo battito accelerò, l’aria si fece pesante e Victor si piegò in due. Venne pervaso da spasmi, passandogli attraverso ogni centimetro di muscolo.
“Eravate cosa?” ripeté Eli.
Victor si aggrappò al tavolo, cercando di trattenersi dal gemere. Il dolore era terribile, come se ogni muscolo del suo corpo si stesse contraendo. Come se fosse colpito nuovamente da scariche elettriche. Fermati, pensò. Basta, implorò. Alla fine, riuscì a immaginare il dolore come un interruttore, lo premette, e nuovamente svanì.
Le sue pulsazioni tornarono ad avere una frequenza normale, l’aria si assottigliò e non sentì più nulla. Rimase a terra, senza fiato e stordito. Aveva lasciato cadere il telefono sul linoleum. Allungò una mano tremante e lo sollevò nuovamente vicino all’orecchio.
Eli stava praticamente urlando. “Ascolta,” stava dicendo, “resta lì. Non so cosa tu abbia fatto, ma rimani lì. Mi senti? Non muoverti.”
E Victor sarebbe rimasto effettivamente lì, se non avesse sentito un doppio-click.
La linea fissa del loro appartamento era fornita dall’università. Emetteva un suono del genere quando veniva attivata. Ora, mentre Eli gli parlava con il cellulare e gli intimava di rimanere fermo, e Victor cercava di recuperare la giacca, riuscì a distinguere quello stesso suono in sottofondo. Si accigliò. Un doppio-click seguito dalla digitazione di tre numeri che suonavano parecchio come 9-1-1.
“Non muoverti,” si raccomandò nuovamente Eli. “Arrivo.”
Victor annuì cautamente, dimenticando quanto fosse facile mentirgli quando non lo si doveva guardare in faccia.
“D’accordo,” disse. “Resterò qui.” Riattaccò.
Victor finì di sistemarsi la giacca e lanciò un’ultima occhiata alla stanza. Era un disastro. Corpo a terra a parte, la scena non sembrava avere visto un omicidio al suo interno, ma la forma contorta assunta dal cadavere di Angie mostrava che non era stata una morte naturale. Prese una salvietta igienizzante da una confezione che trovò in un angolo e pulì il tavolo, resistendo all’impulso di pulire ogni oggetto nella stanza. Altrimenti, sarebbe sembrata effettivamente una scena del crimine. Sapeva che ci doveva essere un filmato di sicurezza in cui era stato visto entrare, ma non aveva tempo di pensare anche a quello.
Victor Vale uscì dal laboratorio e scappò.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦


MENTRE si dirigeva verso l’appartamento – aveva bisogno di parlare con Eli di persona, aveva bisogno di fargli capire – si meravigliò di quanto si sentisse fisicamente bene. Ricercato e fautore di un omicidio, ma libero dal dolore. Poi, ai margini di un lampione, guardò verso il basso e notò che gli sanguinava la mano. Doveva essersi graffiato contro qualcosa. Ma non sentiva niente. Non lo sentiva affatto. Cercò di evocare quella strana aria ronzante, cercando di abbassare la propria soglia del dolore per una frazione di tempo, solo per vedere se poteva comunque sentire davvero come stava. Il dolore raddoppiò e Victor si accasciò contro il palo.
Non così bene, dunque.
Si sentiva definitivamente come se fosse morto. Ancora. Gli dolevano le mani per quanto avesse stretto il tavolo e si domandò se non gli si fossero rotte le ossa. Ogni muscolo del resto del corpo fremette, e la sua testa girò come se fosse affetto da una forte febbre. Quando il marciapiede cominciò a sembrargli ondulare, premette quell’interruttore, spegnendo ancora una volta il dolore. Si diede un momento per riprendersi e rimettersi in piedi. Di nuovo, non sentì nulla. Niente di straordinario. Niente di incredibile. Cacciò la testa all’indietro e rise. Non una di quelle risate maniacali, e nemmeno tanto rumorosamente. Più una risata simile ad un colpo di tosse, un’esalazione sbalordita.
Ma anche se fosse stata più forte, nessuno l’avrebbe sentito, non sopra alle sirene.
Le due macchine si fermarono di botto davanti a lui, e Victor ebbe appena il tempo di elaborare il loro arrivo prima di venire spinto contro il cemento, ammanettato e incappucciato con un sacco nero. Si sentì spingere sul sedile posteriore di una delle due macchine della polizia.
Il cappuccio era un elemento interessante – a Victor non piaceva la sensazione di essere bendato. La macchina partì, non concedendogli alcun segnale visivo o fisico per potersi orientare. I poliziotti sembrarono optare per una guida più veloce e disorientante.
Victor si rese conto che avrebbe potuto reagire. Combattere senza doverli toccare. Senza doverli neppure vedere. Ma si trattenne.
Sembrava inutilmente pericoloso ferire i poliziotti nel mentre stavano guidando. Solo perché poteva spegnere il proprio senso del dolore, non significava che non poteva morire se il veicolo fosse andato distrutto, quindi si concentrò su che cosa fare con calma; calma che iniziava a turbarlo. Il fatto che l’assenza del senso di sofferenza fisica potesse suscitare una tale assenza di panico era al tempo stesso snervante e affascinante. Se non si fosse trovato nel retro di un’auto della polizia, avrebbe voluto prendere nota sulla questione.
Il veicolo svoltò violentemente, facendolo sbattere contro lo sportello e imprecare, non per il dolore quanto per abitudine. Le manette gli si conficcarono nei polsi e, quando sentì qualcosa di caldo e umido scorrergli lungo le dita, decise di abbassare lievemente la propria la propria insensibilità. Provò a guarirsi, ma evidentemente non aveva acquisito gli stessi poteri di Eli. Ci provò di nuovo, alzando ulteriormente la soglia del dolore, e –
Ansimò, inclinando la testa contro il sedile. Il dolore gli attraversò i polsi lì dove lo stringeva il metallo. Serrò la mascella e cercò di riprendere l’equilibrio. Provò a livellare il senso di dolore in modo più normalizzato, sfumando quella sensazione.
Chiuse gli occhi nonostante l’oscurità del cappuccio e trovò una giusta soglia. Gli facevano male i polsi, ma si era avvicinato ad un dolore più sopportabile che acuto.
Ci avrebbe comunque messo un po’ per abituarcisi.
Finalmente, l’auto si fermò, lo sportello si aprì ed un paio di mani lo tirarono fuori.
“Potete togliermi il cappuccio?” chiese nell’oscurità. “Non dovreste ripetermi i miei diritti? O mi sono già perso quella parte?”
La persona che lo guidava lo spinse verso destra e la sua spalla sbatté contro un muro. Erano le guardie del campus, forse? Sentì una porta aprirsi e un leggero cambiamento dei suoni. Quella nuova stanza sembrava non avesse molti mobili e delle pareti lisce, a giudicare dall’eco. Una sedia strisciò indietro e qualcuno vi spinse Victor sopra. Poi i passi si allontanarono e la porta si chiuse.
La stanza rimase in silenzio.
Una porta si aprì. Sentì dei passi avvicinarsi. Gli venne rimosso il cappuccino. La stanza era molto, molto luminosa e vi era un uomo seduto davanti a lui, con le spalle larghe, i capelli neri e nessun entusiasmo.
Victor si guardò intorno nella sala per gli interrogatori, che era più piccola di quanto avesse immaginato, e un po’ più squallida. Era bloccato lì dentro, senza possibilità di uscita.
“Signor Vale, sono il Detective Stell.”
“Pensavo che quei cappucci venissero utilizzati solo per le spie, terroristi o i cattivi dei film d’azione,” commentò Victor, riferendosi al pezzo di tessuto nero che ora si trovava sul tavolo tra di loro. “È legale?”
“I nostri ufficiali sono addestrati a difendersi secondo il proprio giudizio,” rispose il Detective Stell.
“E la mia vista risulta una minaccia?”
Stell sospirò. “Sai che cosa sia un EO, Signor Vale?”
Sentì il suo battito accelerare a quella parola. L’aria ronzò debolmente intorno a lui, ma deglutì, cercò di ritrovare la sua tranquillità. Annuì leggermente. “Ne ho sentito parlare.”
“E sai cosa succede quando qualcuno avvista un EO?”
Victor scosse la testa.
“Tutte le volte che qualcuno fa una chiamata al 911 e pronuncia quella parola, io mi devo alzare dal letto e venire in centrale a controllare. Non importa se è una chiamata scherzo di alcuni bambini, o il delirio di un senza-tetto. Devo comunque prendere la situazione con estrema serietà.”
Victor corrugò la fronte. “Mi dispiace che qualcuno le abbia fatto perdere tempo, signore.”
Stell si sfregò gli occhi. “È così, Signor Vale?”
Victor emise una risata serpentina. “Non può dire sul serio. Davvero qualcuno le ha detto che ero un EO” – sapeva già chi, ovviamente – “e davvero ci ha creduto? Che razza di Extra-Ordinario dovrei mai essere?” Victor fece per alzarsi, ma le manette lo tennero fermamente bloccato al tavolo a cui erano legate.
“Siediti, Signor Vale.” Stell fece finta di esaminare i suoi documenti. “Lo studente che ci ha chiamato facendo rapporto, un certo Signor Cardale, ha anche detto che hai confessato l’omicidio di una studentessa, Angela Knight.” Sollevò lo sguardo verso di lui. “Ora, anche se volessi trascurare questa faccenda degli EO, e non sto dicendo che sia così – prendo anche i cadaveri molto seriamente. Ed è quello che abbiamo trovato al laboratorio di Ingegneria di Lockland. Quindi, può negare qualche parte di queste affermazioni?”
Victor si sedette e fece alcuni lunghi respiri profondi. Quindi scosse la testa. “Eli deve aver bevuto.”
“Davvero?” Stell sembrava poco convinto.
Victor osservò una goccia di sangue cadere dai suoi polsi sul tavolo. Lasciò cadere altre tre gocce prima di parlare. “Mi trovavo nei laboratori quando Angie è morta.” Sapeva che le telecamere di sicurezza avrebbero dimostrato la cosa. “Avevo bisogno di andarmene da una festa, e lei è venuta a prendermi. Non volevo andare a casa, e lei ha detto che aveva del lavoro da fare… è il periodo di lavorare alla tesi e… quindi sono andato con lei. Ho lasciato la stanza per un paio di minuti, giusto il tempo di prendere qualcosa da bere, e quando sono tornato… l’ho vista sul pavimento e ho chiamato Eli –”
“Non hai chiamato il 911?”
“Ero sconvolto. Affranto.”
“Non sembra poi così sconvolto.”
“No, ora sono infastidito. E sotto shock. E ammanettato ad un tavolo.” Victor alzò la voce, perché sembrava il momento giusto per farlo. “Ascolti, Eli era ubriaco. Forse lo è ancora. Mi ha detto che era colpa mia. Continuavo a cercare di spiegare che doveva essere stato un infarto, o un malfunzionamento dei macchinari, non so – Angie stava sempre a macchinare con quella roba – ma non mi voleva ascoltare. Ha detto che avrebbe chiamato la polizia. Così sono scappato. Stavo tornando a casa per parlare con lui. E lungo la strada mi hanno fermato.” Alzò lo sguardo verso l’ispettore e fece un cenno per riferirsi alla situazione attuale. “Per quanto riguarda questa storia degli EO, sono confuso quanto lei. Eli ha lavorato troppo ultimamente. La sua tesi riguarda gli EO, ve l’ha detto? Ne è quasi ossessionato. Paranoico, direi. Non dorme, non mangia, lavora solamente sulle sue teorie.”
“No,” disse Stell dall’altra parte del tavolo a prendere nota. “Il Signor Cardale ha dimenticato di farne menzione.” Finì di scrivere ed abbassò la penna.
“È folle,” commentò Victor. “Non sono un assassino, né un EO. Sono un semplice studente di medicina.” Almeno, l’ultima parte era vera.
Stell guardò il suo orologio. “Ti deterremo qui per una notte,” spiegò. “Nel frattempo invierò qualcuno per fare visita al Signor Cardale, testare il suo livello alcoolico e ottenere una sua dichiarazione completa. Se, al mattino, avremo prova che la testimonianza del Signor Cardale è falsata, e nessuna prova la lega alla morte di Angela Knight, la lasceremo andare. Ma sarai ancora sospettato. Comprende? Questo è il meglio che posso fare per adesso. D’accordo?”
No. Non era affatto d’accordo. Ma Victor si sarebbe accontentato. Lo lasciarono senza cappuccio nel mentre l’ufficiale lo accompagnò alla sua cella. Sulla strada, prestò particolare attenzione al numero di poliziotti, al numero di porte e al tempo necessario per raggiungere l’area di detenzione. Victor era sempre stato abile nel risolvere i problemi. Certo, i suoi problemi erano decisamente aumentati di entità, ma le regole che aveva formulato potevano essere ancora valide. I passaggi per risolvere un problema, dalla matematica elementare alla fuga da una stazione di polizia, erano comunque gli stessi. Il metodo migliore per comprendere un problema era selezionare la soluzione migliore. Victor si trovava in una cella piccola e cubica, completa di sbarre e a grandezza d’uomo, e un puzzo di tabacco misto ad urina impestava l’aria. Una guardia se ne stava seduta in fondo al corridoio a leggersi un giornale.
La soluzione più ovvia era quella di uccidere il proprio compagno di cella, chiamare la guardia e uccidere anch’essa. L’alternativa era aspettare fino al mattino e sperare che Eli fallisse il test per l’alcool, che le telecamere di sicurezza fossero limitate agli ingressi e di non aver lasciato prove materiali nel laboratorio che lo ricollegassero alla morte della ragazza.
Victor esaminò l’uomo accasciato contr la branda e si mise al lavoro.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

PRESE la strada più lunga per tornare a casa.
Le prime luci dell’alba riscaldarono il cielo nel mentre camminava, sfregando il sangue secco via dai propri polsi. Almeno, si consolò, non aveva ucciso nessuno. In realtà, Victor era piuttosto orgoglioso del suo controllo. Pensò, per un momento, che il suo compagno di cella fosse morto, ma respirava ancora l’ultima volta che aveva controllato.
Mentre si dirigeva verso casa, sentì un rivolo umido sul viso, proprio sotto il naso. Lo asciugò, rendendosi conto che era sangue. Si ripulì la faccia con la manica e fece appunto mentale di stare più attento. Si era spinto molto in là, per una notte sola, soprattutto considerando che era pure morto qualche ora prima.
Dormire. Il sonno lo avrebbe aiutato. Ma avrebbe dovuto aspettare.
Prima doveva confrontarsi con Eli.

 
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– CAPITOLO 26 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


VICTOR rimase nel bagno e attese che l’albergo si quietasse. Al di là della porta, sentì Mitch riportare Sydney a letto, borbottando delle scuse a suo nome. Non avrebbero mai dovuto prenderla con loro, ma non riusciva a scacciare quella sensazione che gli diceva che sarebbe stata loro utile. Aveva dei segreti, e doveva scoprirli. Eppure, non aveva intenzione di farle del male. Si vantava del controllo, ma nonostante tutti i suoi sforzi, non aveva trovato un modo per gestire pienamente il suo potere durante il sonno. Ecco perché cercava di non dormire, o perlomeno, di farlo il minimo necessario.
Si passò l’acqua fredda tra le mani e poi sul viso, in attesa che quel flebile ronzio elettrico cessasse. Dal momento che non lo fece, cercò di riversarlo all’interno, sussultando quando il ronzio passò dall’ambiente intorno a dentro di lui, scuotendogli ossa e muscoli. Si appoggiò contro il bancone di granito nel mentre il suo corpo veniva percosso dalle scariche elettriche e, parecchi momenti dopo, il brivido passò, lasciando Victor senza energie, ma di nuovo stabile.
Incontrò il proprio sguardo nello specchio e cominciò a sbottonarsi la camicia, esponendo le proprie cicatrici di proiettili della pistola di Eli e osservandole una per una. Una sotto le costole, una sul cuore e una che in realtà gli aveva colpito la schiena ma che lo aveva trapassato. Aveva memorizzato la loro posizione in modo tale che quando avrebbe visto Eli, avrebbe potuto ripagarlo del gesto. Cavoli, se i proiettili sarebbero rimasti incastrati lì, Eli non avrebbe avuto modo di guarirsi. Quel pensiero dava a Victor un po’ di conforto.
Forse le ferite gli avevano fatto meritare un po’ di rispetto in prigione, ma quando ormai era riuscito ad integrarsi, avevano già cominciato a svanire. Inoltre, Victor aveva trovato altri modi per farsi rispettare a Wrighton, facendo provare un po’ di agonia istantanea a chi osava causargli fastidio – con parsimonia, naturalmente – quel tipo di dolore che li faceva finire a terra, ansimanti ai suoi piedi. Aveva imparato pian piano a gestire come poteva i suoi poteri. In qualche modo, aveva trovato la sua avventura in carcere piuttosto piacevole.
Ma anche lì, Eli aveva ossessionato i suoi pensieri, offuscandogli il divertimento, rovinando la sua pace. E dopo dieci lunghi anni di attesa, era il suo turno di entrare nella testa di Eli e demolirlo.
Si riabbottonò la camicia, nascondendo nuovamente le cicatrici dalla propria vista, ma non dalla sua memoria.

 
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– CAPITOLO 27 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND



VICTOR si arrampicò sul davanzale della finestra, grato di averla lasciata aperta, e trovandosi al primo piano non dovette fare poi troppa fatica. Si fermò sul davanzale, proprio mentre le prime luci del mattino stavano spuntando, ad ascoltare i rumori all’interno dell’appartamento. Sembrava tutto tranquillo, ma Victor sapeva che Eli era in casa. Lo percepiva.
Fu scosso da un brivido, ma non provò alcun panico martellante. Questa nuova calma stava diventando un po’ inquietante, anche se per Victor era difficile comprenderlo. L’assenza di dolore portava ad un’assenza di paura che portava ad un’indifferenza per le conseguenze. Sapeva che era stata una cattiva idea evadere dalla cella, proprio come sapeva che lo era anche quello che stava per fare. Anzi, era un’idea decisamente peggiore. Riusciva a mettere meglio ordine tra i suoi pensieri adesso, meravigliato dal modo in cui giravano intorno a soluzioni che sorvolavano la questione della prudenza per favorire un raggiungimento immediato. La mente di Victor era sempre stata attratta da quelle soluzioni, ma era sempre stata ostacolata da una valutazione di etica e morale, del bene o del male, o almeno di quello che sapeva che le persone esterne a lui avrebbero valutato come giusto o sbagliato. Ma adesso, scegliere era decisamente più semplice. Elegante.
Entrò nella sua stanza e si diede una rapida sistemata dato quello che aveva dovuto passare quella notte. Si fermò davanti allo specchio ed incontrò il suo sguardo – il nuovo senso di calma li aveva resi leggermente più pallidi. Sorrise, un sorriso freddo, un po’ estraneo, al limite dell’arroganza, ma a Victor non dispiacque. Gli piaceva quel sorriso. Assomigliava vagamente a quello di Eli.
Victor uscì dalla sua stanza e si avviò cautamente lungo il corridoio verso la cucina. Sul tavolo vi erano una serie di coltelli ed un taccuino aperto su una pagina piena di appunti e costellata da macchie di sangue. Quanto ad Eli stesso, Victor lo trovò sul divano del soggiorno, con la testa china in avanti perso nei suoi pensieri, o forse a pregare. Victor si fermò un attimo a guardarlo. Sembrava strano che Eli non riuscisse a percepire la sua presenza quando Victor invece poteva. Prese uno dei coltelli sul tavolo, facendone stridulare la lama contro la sua superficie.
Eli si voltò e si alzò di scatto dal divano. “Vic.”
“Sono deluso,” disse Victor.
“Che cosa ci fai qui?”
“Mi hai fatto internare.”
“Hai ucciso Angie.” Le sue parole uscirono lentamente dalla gola di Eli. Victor fu sorpreso dall’emozione nella voce dell’amico. “L’amavi davvero?” domandò. “O sei solo arrabbiato perché anche io ho acquistato dei poteri?”
“Era una persona, Victor, non un’oggetto, e tu l’hai uccisa.”
“È stato un incidente,” si giustificò. “Ed è stata colpa tua. Se avessi accettato di aiutarmi…”
Eli si passò le mani sul viso. “Come hai potuto farlo?”
“Tu come hai potuto?” ribatté Victor, sollevando completamente il coltello dal tavolo. “Hai chiamato la polizia e mi hai accusato di essere un Eo. Io non ti ho tradito, sappilo. Ma avrei potuto.” Si grattò la testa. “Perché hai detto loro qualcosa di così stupido? Sapevi che hanno un reparto speciale per chi è sospettato di essere un EO? Lo sapevi?”
“Sei fuori di senno,” Eli indietreggiò, finendo con le spalle al muro. “Metti giù quel coltello. Sai che non puoi farmi male.”
Victor sorrise sentendosi sfidato. Un rapido passo in avanti, ed Eli provò a fare istintivamente un altro passo indietro, ma incontrò il Muro e Victor si scontrò con lui.
Il coltello lo ferì. Fu più facile di quanto avesse immaginato. In un attimo, l’intera lama scomparve all’interno dello stomaco di Eli.
“Sai che cosa ho capito?” Victor si chinò su di lui nel mentre parlava. “Quando ti ho osservato quella notte, quando ti si è conficcato il vetro nella mano? Non puoi guarirti fino a quando hai qualcosa conficcato nella carne.” Torse la lama ed Eli gemette, scivolando lentamente verso terra, ma Victor lo trattenne.
“Non sto ancora usando il mio nuovo trucchetto,” enunciò. “Non è tanto appariscente quanto il tuo. Vuoi vederlo?”
Victor non attese una risposta. L’aria ronzava intorno a lui, ma non se ne preoccupò. Attivò il suo potere. Eli urlò, suono che fece rallegrare Victor. Se lo meritava. Eli lo aveva tradito, meritava di soffrire un po’. Tanto poi sarebbe guarito. Quando tutto sarebbe finito, non gli sarebbe rimasta neanche una cicatrice. Il minimo che Victor poteva fare era provare ad impressionarlo un pochetto. Lasciò andare il manico del coltello e osservò il corpo di Eli collassare definitivamente sul pavimento.
“Una nota per la tua tesi,” disse mentre il suo amico ancora giaceva a terra, ansimando. “Pensavi che i nostri poteri fossero in qualche modo un riflesso delle nostre nature. Che è stato Dio a deciderli, ma ti sbagliavi. Non si tratta di Dio. Riguarda il nostro modo di pensare, dal pensiero che ci mantiene in vita. Per riportarci indietro. Vuoi sapere come lo so?” Rivolse la sua attenzione al tavolo, cercando un’altra lama. “Perché tutto quello a cui riuscivo a pensare mentre morivo è stato il dolore.” Riazionò i suoi poteri e lasciò che le urla di Eli riempissero nuovamente la stanza. “E quanto ho voluto che smettesse.”
Victor spense nuovamente le scariche, ascoltando le grida di Eli dissolversi nel mentre raggiungeva il tavolo. Stava studiando le varie lame quando un rumore esplose nella stanza. Un rumore improvviso e molto forte. Victor tornò verso la zona del salotto dove trovò Eli a stringersi lo stomaco con una mano mentre nell’altra brandiva una pistola. Si era liberato del coltello, il quale si trovava sul pavimento, con una cospicua quantità di sangue. Victor si chiese quanto tempo gli sarebbe servito per guarire del tutto. Poi, partì un altro sparo, passando molto vicino alla testa di Victor, il quale si accigliò.
“Sai come usarla?” domandò, giocherellando con il nuovo coltello che si era procurato. Le mani di Eli stavano visibilmente tremando intorno alla presa dell’arma.
“Angie è morta –” ripeté Eli.
“Sì, lo so –”
“… ma anche tu.” Non sembrava voler essere una minaccia. “Non so chi sei, ma non sei Victor. Sei qualcosa che è strisciato dentro la sua pelle. Un diavolo che indossa il suo corpo.”
“Cavoli,” commentò Victor, e per qualche ragione la situazione lo fece ridere. Non riusciva a smettere di ridere. Eli sembrava profondamente disgustato, e fece venire a Victor di pugnalarlo di nuovo.
“Sei qualcos’altro,” disse Eli. “Victor è morto.”
“Siamo entrambi morti, Eli. Sia tu che io siamo tornati indietro.”
“No, no, non credo sia così. Non del tutto. Qualcosa è andato storto, perduto. Non riesci a percepirlo? Io sì,” Eli sembrava effettivamente spaventato. Victor si sentì deluso. Sperava che anche Eli la sentisse, quella calma, ma apparentemente sentiva qualcosa di completamente diverso.
“Forse hai ragione,” rifletté Victor. Era disposto ad ammettere che si sentiva diverso. “Ma se a me manca qualcosa, deve mancare anche a te. Dopotutto, la vita è fatta di compromessi. O hai pensato che solamente per il fatto che tu ti sia messo nelle mani di Dio, ti abbia fatto tornare con qualcosa in più e senza chiedere niente in cambio?”
“Lo ha fatto,” ringhiò Eli, premendo il grilletto.
Questa volta non lo mancò. Victor sentì l’impatto e abbassò lo sguardo sul buco nella sua maglietta, grato per il fatto di avere disattivato la sua sensibilità appena in tempo. Toccò quell’esatto punto, macchiandosi le dita di rosso. Nonostante ciò, sapeva che era un brutto punto in cui venire feriti.
Victor sospirò, alzando lo sguardo. “È un po’ da ipocriti, non credi?”
Eli fece un passo avanti. La ferita nel suo stomaco era già guarita e il suo viso era tornato più colorito. Victor sapeva che doveva continuare a parlare per distrarlo.
“Ammettilo,” disse, “Anche tu ti senti diverso. La morte deve averti tolto qualcosa. Che cosa ti ha tolto?”
Eli sollevò di nuovo la pistola. “La paura.”
Victor gli rivolse un sorriso cupo. Le mani di Eli tremavano e la sua mascella era serrata. “So che non è così. La vedo.”
“Non sono spaventato,” disse Eli. “Solo, dispiaciuto.”
Sparò un altro colpo. L’impatto fece fare a Victor un passo indietro. Le sue dita si chiusero intorno al coltello più vicino e poi lo sferrò, scavando una ferita nel braccio teso di Eli. La pistola cadde sul pavimento, ed Eli scattò indietro per evitare un altro colpo.
Victor intendeva seguirlo, ma la sua visione si offuscò. Si aggrappò al tavolo. C’era parecchio sangue sul pavimento. Non era sicuro di quanto di esso fosse il suo. Quando alzò nuovamente lo sguardo, Eli era lì sopra di lui. Victor crollò a terra. Spinse sulle mani per rimettersi in ginocchio, ma non riuscì ad alzarsi più di così. Un braccio lo spinse nuovamente giù. La sua vista si oscurò di nuovo.
Eli stava parlando, ma non riuscì a distinguere quello che diceva. Poi sentì la pistola raschiare il pavimento nel venire sollevata. Qualcosa lo colpì alla schiena, e non sentì più alcun suono.
Iniziò a sprofondare nella più completa oscurità nel mentre percepiva Eli muoversi attraverso la stanza, parlare al telefono. Stava modulando la voce in modo da sembrare preso dal panico, ma il suo viso era fermo, calmo, composto. Victor vide le scarpe di Eli allontanarsi prima che tutto svanisse.

 
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VICIOUS


– CAPITOLO 28 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


MITCH aveva riportato Sydney nella sua stanza, chiudendosi la porta alle spalle uscendo. Lei rimase lì seduta al buio per diversi minuti, stordita dall’eco del dolore, dalla foto sul giornale e dai pallidi occhi di Victor, come quelli di un morto prima che tornasse in sé. Rabbrividì. Erano passati due lunghi giorni. Aveva trascorso la notte prima sotto un cavalcavia, nascosta in un’intercapedine, cercando di rimanere asciutta. L’inverno aveva lasciato posto ad una primavera fredda e umida. Aveva cominciato a piovere il giorno prima che venisse sparata, e da allora non aveva più smesso.
Ritrasse la mano dentro la manica della felpa rubata. Sentiva ancora la pelle strana. Era come se l’intero braccio stesse bruciando. Era come quando un arto si addormenta e inizia a fare male, come colpito da tanti piccoli aghi se si fosse provato a muoverlo. Lo massaggiò, aspettando che le tornasse la sensibilità. Non le piaceva quella sensazione, le ricordava il freddo, e Sydney odiava sentire il freddo.
Premette l’orecchio contro la porta e rimase in ascolto alla ricerca di capire dove fosse Victor, ma dalla porta del bagno non giunse alcun rumore e, infine, quando il formicolio se ne andò dal suo braccio, strisciò nuovamente sul letto, si rannicchiò su sé stessa e cercò di prendere sonno. Quando non riusciva ad addormentarsi in passato, Serena si sarebbe seduta sul bordo del letto e le avrebbe accarezzato i capelli. Sydney avrebbe chiuso gli occhi e sarebbe rimasto tutto in silenzio, prima che la sua mente divagasse e il tocco di sua sorella la facesse scivolare nel sonno.
Bloccò immediatamente quel pensiero, ricordando che Serena – quella che aveva fatto certe cose per prendersi cura di lei – non c’era più. Quel pensiero fu come l’acqua gelata, così cercò di pensare ad altro, attuando un trucco che le aveva insegnato la sua tata. Non contare partendo da uno, o fare un conto alla rovescia, ma contare solo due numeri alternati, uno-due-uno-due mentre inspirava ed espirava. Uno-due. Un ritmo costante, come quello di un battito cardiaco, e così finalmente riuscì ad addormentarsi.
E quando lo fece, sognò l’acqua.

 
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– CAPITOLO 29 –
LO SCORSO ANNO
COMUNE DI BRIGHTON


SYDNEY Clarke era morta in una fredda giornata di Marzo.
Era successo poco prima di pranzo, per colpa di Serena.
Le sorelle Clarke sembravano identiche, nonostante Serena avesse ben sette anni in più e fosse più alta. La somiglianza veniva sottolineata ancora più dal fatto che Sydney ammirava molto la sorella maggiore. Si ispirava a lei per il vestire e per come comportarsi, arrivando quasi ad essere una versione in miniatura della sorella. Un’ombra. Avevano gli stessi occhi azzurri e gli stessi capelli biondi, anche se Serena aveva sempre imposto a Sydney dei tagli corti. Quella somiglianza era alquanto inquietante.
Dal momento che si somigliavano, avrebbero sicuramente dovuto ricordare anche i loro genitori – non che questi fossero presenti per riuscire a fare qualche comparazione. Serena era solita dire a Sydney che quelle persone non erano affatto i loro genitori, che le ragazze erano giunte lì da qualche posto molto lontano a bordo di una barca blu, o che le avevano trovate in uno scomparto della prima classe su un treno, o che erano state contrabbandate da delle spie e affidate a loro. Se Sydney avesse messo in dubbio la storia, serena avrebbe semplicemente insistito sul fatto che la sorellina era troppo piccola per poterlo ricordare. Sydney era abbastanza sicura che fossero solo storielle, anche se Serena aveva un talento nel raccontarle. Era sempre stata convincente.
Era stata un’idea di Serena uscire sul lago ghiacciato e fare un picnic. Erano solite farlo ogni anno, dovunque si trovavano, intorno all’inizio del nuovo anno, si prendevano qualche giorno per ritirarsi nei dintorni del lago nel centro di Brighton, quando questo era ghiacciato; anche se da quando Serena aveva iniziato a frequentare il college non ne avevano più avuto l’occasione. Quindi ci fu l’occasione in un fine settimana di Marzo, verso il termine della pausa primaverile di Serena, e qualche giorno prima del dodicesimo compleanno di Sydney. Serena teneva la tovaglia per il picnic sulle spalle come fosse una mantella e regalò a sua sorella l’ultima versione del suo racconto sulla famiglia Clarke. Questa volta riguardava i pirati o i super-eroi, Sydney non le aveva prestato molta attenzione; era troppo impegnata a far permanere l’immagine di sua sorella nella memoria, in modo da ricordarsi perfettamente di lei quando se ne sarebbe andata di nuovo. Raggiunsero un punto propizio e Serena si tolse la tovaglia dalle spalle e la stese sul ghiaccio, cominciando a posizionare il cibo e le stoviglie.
Ora, il problema era che Marzo (a differenza di Gennaio o Febbraio) non era particolarmente gelido, e il ghiaccio era in procinto di scioglimento. Il cambiamento quasi non si nota, a meno che questo non inizi a rompersi sotto a del peso.
Cosa che avvenne.
Le crepe erano piccole e quasi impercettibili, ma durante lo svolgimento della giornata, il suono di scissione si sentì sempre più, e quando se ne resero conto fu ormai troppo tardi. Serena aveva appena iniziato a raccontare un’altra delle sue storielle quando il ghiaccio aveva ceduto, lasciando Sydney precipitare nell’acqua scura e gelida. Anche se Serena le aveva insegnato a nuotare, le sue gambe si erano attorcigliate nella coperta mentre affondava, trascinandola giù insieme a lei. L’acqua ghiacciata le pungeva la pelle e gli occhi. Cercò invano di aggrapparsi a qualcosa, ma continuò a sprofondare. Tutto intorno a lei si gelò, fino a cominciare a svanire, fino a che non rimase solo il buio.
Sydney apprese in seguito che Serena era riuscita a tirarla fuori dall’acqua ghiacciata e trascinarla fino a riva, prima che la squadra di soccorso lì vicino riuscisse a raggiungerle. Serena respirava a malapena, il suo battito cardiaco sempre più lento fino a fermarsi completamente – Sydney era accanto a lei, completamente immobile e completamente sbiancata. Entrambe le ragazze erano morte sul posto, ma poiché erano completamente congelate, nessuno poté dichiararlo ufficialmente, così i paramedici le portarono entrambe in ospedale per riscaldarle.
Quello che seguì fu un miracolo. Le sorelle tornarono in vita. I loro cuori ripresero a battere, e i loro polmoni a respirare. Si svegliarono, mettendosi poi a sedere, parlarono – erano perfettamente e completamente vive.
C’era un unico problema.
La temperatura di Sydney non si alzò. Si sentiva bene, più o meno, ma le sue pulsazioni rimasero lente, il suo calore corporeo troppo basso – aveva sentito un paio di medici parlarne, dicendo che con quelle statistiche sarebbe dovuta essere in coma – e la ritenevano troppo fragile per poter lasciare l’ospedale.
Per Serena fu completamente diverso. Sydney aveva pensato che si stesse comportando in modo strano, persino più lunatico del solito, ma nessun altro – i medici o le infermiere, e nemmeno i loro genitori, che avevano interrotto il proprio viaggio quando avevano saputo dell’incidente – sembrarono notare il cambiamento. Serena lamentava un mal di testa, quindi le somministrarono degli antidolorifici. Si era poi lamentata dell’ospedale, quindi l’avevano lasciata andare. Proprio così. Sydney li aveva sentiti parlare delle condizioni della sorella, ma quando si era avvicinata a loro e aveva annunciato di volersene andare, questi si erano fatti da parte e l’avevano lasciata passare. Serena era sempre riuscita ad ottenere ciò che voleva, ma mai così. Mai senza impegnarsi e lottare per farlo.
“Stai andando via?” Sydney era seduta sul suo letto. Serena era in piedi sulla porta vestita normalmente con abiti civili. Aveva una scatola tra le mani.
“Mi manca la scuola. E detesto gli ospedali, Sydney,” disse. “Lo sai.”
Ovviamente lo sapeva. Anche lei li odiava. “Ma non capisco. Ti lasciano andare via così?”
“Così sembra.”
“Allora dì loro di lasciare andare anche me.”
Serena si avvicinò e rimase in piedi accanto al suo letto, passando una mano tra i capelli della sorella minore. “Tu hai bisogno di restare qui ancora per un po’.”
Sydney si ritrovò ad annuire, anche se le lacrime le rigavano le guance. Serena le asciugò con il pollice e disse, “Non sto andando via per sempre.”
“Ti ricordi,” chiese Sydney alla sorella maggiore, “che cosa sia successo nel lago? Quando si è rotto il ghiaccio.”
Serena aggrottò le sopracciglia. “Vuoi dire, oltre al freddo?”
Sydney sorrise. Serena no. La sua mano scivolò via. “Ricordo solo di aver pensato: No, non così.” Posò la scatola che aveva con sé sul comodino. “Buon Compleanno, Syd.”
Poi Serena se ne andò. Mentre Sydney no. Chiese anche lei di andarsene, ma non le venne concesso. Supplicò e supplicò, promettendo che stava bene, ma le venne rifiutato. Era il suo compleanno, e non voleva passarlo da sola in un posto del genere. Nonostante questo, continuarono a dirle di no.
I suoi genitori dovevano lavorare, quindi se ne erano andati entrambi.
Le promisero che la settimana successiva sarebbero tornati a prenderla. Le fecero promettere di starsene lì buona per solo un’altra settimana.
Sydney non ebbe molta scelta, e rimase.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

SYDNEY odiava le sere in ospedale.
C’era troppo silenzio, era tutto troppo tranquillo. Veniva colta dal panico, temendo che non sarebbe mai uscita da lì, che non sarebbe mai più potuta tornare a casa. Che sarebbe stata dimenticata lì, costretta ad indossare per sempre le stesse pallide vesti degli altri pazienti, mescolandosi con loro, fino a quando la sua famiglia non si sarebbe dimenticata di lei.
Come se Serena avesse esattamente saputo quello di cui aveva bisogno, la scatola che le aveva lasciato conteneva una sciarpa viola. Era la cosa più luminosa e colorata che avesse nella sua piccola valigia per l’ospedale.
Strinse quella striscia di colore, se la avvolse intorno al collo, nonostante non ci fosse freddo (beh, secondo i medici aveva la temperatura bassa e avrebbe dovuto averne, ma invero non lo sentiva), e iniziò a camminare. Fece avanti e indietro per tutta l’ala dell’ospedale, attirando gli sguardi delle infermiere. La videro, ma non la fermarono, e questo fece sentire Sydney un po’ come Serena. Quando ebbe fatto tre volte il giro, prese le scale per fere lo stesso ad un altro piano. L’intonaco era colorato di una tonalità diversa del beige. Il cambiamento era talmente impercettibile che i visitatori non se ne sarebbero mai accorti, ma Sydney aveva fissato per bene quello nella sua stanza da riuscire a captarlo.
Le persone che occupavano il piano sembravano stare peggio. Sydney ne sentì il forte odore di disinfettante ancora prima di sentire i tossiti o di vedere i medici portare una barella fuori dalla stanza. Qualcuno in una stanza in fondo al corridoio urlò, e una delle infermiere che spingeva la barella si fermò per andare a vedere.
Sydney si infilò dietro ad una tenda dove trovò un lettino coperto da un lenzuolo. Si avvicinò e notò che vi era un corpo sotto il lenzuolo, e quando lo sfiorò, il corpo si contrasse. Sydney balzò indietro, coprendosi la bocca per non gridare. Il cadavere si contrasse una seconda volta. Sydney si strinse la sciarpa viola intorno alle mani. Si sentì di nuovo fredda, ma in un modo diverso. Non era per via dell’acqua gelida, ma per la paura.
“Che cosa ci fai qui?” chiese un’infermiera in modo poco gentile. Sydney non sapeva cosa dire, così si limitò ad indicare il corpo. L’infermiera le prese il polso e la tirò verso il corridoio.
“No,” protestò Syd, finalmente. “Guardi.”
L’infermiera sospirò e si voltò a guardare il lenzuolo, che si contrasse di nuovo.
Anche lei urlò.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

SYDNEY venne costretta a seguire una terapia.
I dottori dissero che l’avrebbe aiutata a far fronte al trauma di vedere un cadavere (anche se non lo aveva esattamente visto) e Sydney avrebbe protestato, ma dopo il suo viaggio senza supervisione al piano superiore si era ritrovava confinata nella sua stanza, e non sapeva come passare il tempo, così acconsentì. Si astenne, tuttavia, dal menzionare il fatto che aveva toccato il corpo poco prima che questo fosse tornato in vita.
Tutti pensavano fosse stato un miracolo. A Sydney veniva da ridere, soprattutto perché sembrava lo pensassero per ogni ricovero, compreso il suo. Si domandò se qualcuno non avesse accidentalmente toccato anche lei.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦


DOPO una settimana, la temperatura corporea di Sydney ancora non si era alzata, ma sembrava stare bene e i medici alla fine acconsentirono a farla tornare a casa il giorno seguente. Quella notte, Sydney uscì di soppiatto dalla sua stanza d’ospedale, diretta verso l’obitorio, per cercare di scoprire se in quella sala era avvenuto davvero un miracolo, un felice incidente, o un colpo di fortuna, o se in qualche modo avesse a che fare con esso.
Mezz’ora dopo, si precipitò fuori dall’obitorio, completamente disgustata e sporca di sangue rappreso, ma con la conferma di una delle sue ipotesi.
Sydney Clarke poteva resuscitare i morti.

 
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