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VICIOUS V.E. Schwab, [TRADUZIONE ITA]

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VICIOUS - V.E. Schwab
- Traduzione italiana -

[Urban / Fantasy]

foqltKI


Victor ed Eli sono compagni di stanza al college: ragazzi brillanti, arroganti e solitari che condividono la stessa acutezza ed ambizione. Nel loro ultimo anno di università, sviluppano un interesse comune per la sperimentazione sui cambiamenti che ll'adrenalina attua in un corpo in caso di esperienze pre-morte ed eventi apparentemente soprannaturali che li porta ad elaborare un'ipotesi: rispettando alcune condizioni, si potrebbero sviluppare alcune abilità straordinarie. Ma quando la loro tesi passa dall'ambito accademico a quello sperimentale, la situazione degenera.

Dieci anni dopo, Victor esce di prigione, deciso a ritrovare il suo vecchio amico (ora nemesi), aiutato da una giovane ragazza la cui natura riservata nasconde un'abilità straordinaria. Nel frattempo, Eli persegue la sua missione di eliminare qualunque persona dotata di super poteri che riesca a trovare - fatta eccezione per la sua compagna, una donna enigmatica dalla volontà inflessibile. Entrambi armati di terribili poteri, spinti dal ricordo del tradimento e della perdita, danno il via alla propria vendetta.

INDICE:

01 - 02 - 03 - 04 - 05 - 06 - 07 - 08 - 09 - 10
11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20
21 - 22 - 23 - 24 - 25 - 26 - 27 - 28 - 29 - 30
31 - 32 - 33 - 34 - 35 - 36

- 2 -
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11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20
21 - 22 - 23 - 24 - 25 - 26 - 27 - 28 - 29 - 30
31 - 32 - 33 - 34 - 35 - 36

La seguente è una traduzione amatoriale. L'uscita non è al momento prevista in Italia.
Vicious - V.E. Schawab - Traduzione ITA - Italiano - Victor Vale - Eliot Cardale - Vicious libro traduzione

Edited by Pandora_Key - 27/8/2018, 00:15

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VICIOUS


– CAPITOLO 01 –
LA SCORSA NOTTE
CIMITERO DI MERIT


VICTOR adagiò nuovamente le pale sulle sue spalle e ridiscese cautamente il sentiero superando un’altra vecchia fossa aperta. Seguì la via tra le tombe, accarezzandone le lapidi al suo passaggio, fischiettando. Il suono veniva trasportato nell’oscurità dal vento. Sydney rabbrividì nel suo cappotto troppo grande e nei suoi leggins arcobaleno nel mentre arrancava alle sue spalle. I due sembravano due fantasmi intenti ad attraversare il cimitero, entrambi biondi e abbastanza pallidi da passare per fratelli o forse per padre e figlia. Non lo erano, ma la somiglianza era sicuramente utile, dal momento che Victor non poteva di certo dire che l’aveva presa con sé solo qualche giorno prima.
Lui era appena uscito di prigione. Lei era stata ferita. Era stato un incontro voluto dal destino, o così sembrava. In effetti, Sydney era l’unica ragione per cui Victor aveva iniziato a crederci, nel destino.
Smise di canticchiare, appoggiò leggermente la suola della scarpa su una lapide e scrutò nell’oscurità. Non con gli occhi, quanto con la pelle, o meglio con ciò che si era insinuata al di sotto di essa, una cosa aggrovigliata intorno al suo polso. Poteva anche cercare di coprirne il rumore, ma quella sensazione non smetteva mai. Un ronzio che gli comunicava che qualcuno era vicino.
Sydney lo guardò accigliata.
“Siamo soli?” domandò.
Victor batté le palpebre, poi il suo cipiglio scomparve, sostituito dalla solita espressione tranquilla. Il suo piede scivolò giù dalla lapide. “Solamente noi ei morti.”
Si fecero strada nel cuore del cimitero, con le pale che tintinnavano lievemente sulla spalla di Victor ad ogni suo passo. Sydney colpì un pezzo di pietra staccatosi da una delle tombe più vecchie. Ne distingueva le lettere, parti di parole, incise su un lato. Avrebbe voluto sapere che cosa dicevano, ma la roccia era ormai sommersa da muschio ed erbacce, e Victor stava proseguendo, senza fermarsi ad aspettarla. Lei gli corse dietro, rischiando di scivolare più volte sul terreno ghiacciato prima di riuscire a raggiungerlo. Lui si era fermato ad osservare una tomba. Era recente; la terra sembrava essere stata smossa da poco.
Sydney sbuffò, un piccolo gemito di disagio che non aveva nulla a che vedere con il freddo pungente. Victor si voltò a guardarla e le offrì un lieve sorriso.
“Su col morale, Syd,” disse. “Vedrai che sarà divertente.”
Ad essere onesti, neppure a Victor interessava molto di quelle tombe. Non gli piacevano i morti, soprattutto perché non poteva avere alcun effetto su di loro. Sydney, al contrario, non piaceva la gente morta perché su di loro aveva sin troppa influenza. Incrociò le braccia al petto, sfregando il pollice fasciato sul punto dell’avambraccio dove era stata colpita. Aveva cominciato a ticchettare.
Victor si voltò e affondò una delle pale nella terra. Poi lanciò l’altra a Sydney, che spalancò le braccia appena in tempo per afferrarla. Il manico era alto quasi quanto lei.
A pochi giorni dal suo tredicesimo compleanno, nonostante i dodici anni sull’orlo della fine, Sydney Clarke si ritrovava ad essere piccoletta. Era sempre stato un suo connotato, l’essere più bassa della media, ma certamente non l’aveva aiutata l’essere cresciuta di a malapena un mezzo centimetro dal giorno in cui era morta.
Sollevò la pala, lasciandosi sfuggire una smorfia per il peso.
“Mi prendi in giro?” si lamentò.
“Più veloce facciamo, e prima potremo andarcene a casa.”
Casa non era esattamente ‘casa’. Era più che altro la stanza di un albergo contenete solamente i vestiti rubati di Sydney, il latte al cioccolato di Mitch e i file di Victor, ma non era quello il punto. In quel momento, qualsiasi posto che non fosse il Cimitero Merit sarebbe potuto essere considerato come ‘casa’. Sydney osservò la tomba, stringendo le dita sull'impugnatura in legno. Victor aveva già iniziato a scavare.
“E se…” disse, deglutendo, “… e se le altre persone accidentalmente si svegliassero?”
“Non succederà,” sbottò Victor. “Concentrati su questa tomba. Inoltre…” alzò lo sguardo dal suo lavoro. “Da quando hai paura dei cadaveri?”
“Non ne ho,” ribatté lei, forse troppo velocemente e con voce troppo alta ed acuta.
“Vedila in questo modo,” la stuzzicò lui, gettando un mucchio di terriccio sull’erba. “Anche se dovessi risvegliarli, non potrebbero andare da nessuna parte. E adesso scava.”
Sydney si sporse in avanti, i suoi corti capelli biondi le ricaddero sopra gli occhi ed iniziò a scavare. I due lavorarono al buio, accompagnati dal ronzio occasionale di Victor ed il tonfo delle pale che riempivano l’aria.

Tanf.
Tanf.
Tanf.


 
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VICIOUS


– CAPITOLO 02 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND


VICTOR tracciò una linea ben definita sopra alla parola ‘meraviglioso’.
La carta sulla quale avevano stampato il testo era abbastanza spessa da impedire che l’inchiostro la sciogliesse. Si soffermò a rileggere la pagina modificata e sussultò quando uno dei lampioni sul limite della cancellata della Lockland University sfarfallò alle sue spalle. La scuola andava molto orgogliosa delle fattezze in stile gotico del suo palazzo, ma la recinzione ornata che la circondava – pur cercando di evocare la natura esclusiva dell’università e la sua estetica del mondo antico – risultava essere solamente pretenziosa e soffocante. A Victor ricordò un’elegante gabbia.
Spostò il peso da una gamba all’altra e riposizionò il libro sul ginocchio. Era un libro di self-help, l’ultimo di cinque, scritto dai rinomati Dottori Vale. Gli stessi Vale che stavano affrontando attualmente un tour internazionale. Proprio gli stessi Vale che occupavano diverse ore del tempo sullo schedario di Victor – anche da molto prima che vendessero i loro best-seller “Guru del Potere”.
Tornò a sfogliare le pagine finché non trovò l’inizio del suo appunto più recente e cominciò a leggerlo. Per la prima volta che stava usufruendo di uno dei lavori di Vale non semplicemente per piacere personale. Victor non poté fare a meno di sorridere. Si sentì infondere da un profondo senso di orgoglio nel rileggere i lavori dei suoi genitori, scorrendo i vari capitoli sull’empowerment, prima spiegato ampiamente per poi riassumere i concetti in poche e semplici righe. Aveva cercato di superarli per più di una decade, da quando aveva dieci anni, una scelta sofferta ma allo stesso tempo gratificante, ma fino alla settimana precedente non era mai stato in grado di considerarlo più che un utilità per il credito scolastico. La settimana precedente, quando aveva accidentalmente lasciato il suo ultimo progetto nella classe di arte dopo il pomeriggio – La Lockland University richiedeva un credito artistico obbligatorio, anche per gli aspiranti medici e scienziati – era tornato a fare visita al suo insegnante. Si era aspettato un rimprovero, qualche lezione sul costo culturale del deturpare la letteratura, o forse sul costo materiale della carta. Invece, l’insegnate aveva giudicato quella distruzione letteraria come arte. Aveva praticamente fortino lui stesso la spiegazione, riempiendo gli spazi vuoti usando termini come ‘espressione, identità, considerazioni artistiche’ e ‘rimodellamento’.
Victor si era limitato a fare un solo cenno con il capo e offrì la parola che più aveva preferito nella lista proposta dal professore — ‘rimodellamento’ — e fu così, che la tesi di laurea venne decisa.
Il pennarello sibilò mentre segnava un’altra linea, cancellando diverse frasi nel bel mezzo della pagina. Stava iniziando ad intorpidirglisi il ginocchio sotto al peso del tomo. Se avesse mai avuto bisogno di self-help, avrebbe sicuramente fatto riferimento ad un volume più piccolo, leggero e semplicistico, magari in un’edizione tascabile. Ma forse alcune persone sentivano il bisogno di più nozioni a riguardo. Forse alcuni lettori avrebbero ricercato tra gli scaffali uno dei volumi più grossi, supponendo che un numero maggiore di pagine avrebbe significato maggiori aiuti emotivi o psicologici. Scrutò le varie parole e sorrise nel mentre trovava un’altra riga da cancellare.
Quando suonò la prima campana, segnando la fine della sessione artistica di Victor, sfogliò il libro dei suoi genitori fino alla sezione su come iniziare al meglio la giornata:
Perdere. Abbandonare. Mollare. Alla fin fine, sarebbe meglio arrendersi prima di iniziare. Perdersi. Perditi e poi non ti interesserà più di venire trovato.
Aveva dovuto superare diversi paragrafi per trovare la frase perfetta e scegliere la giusta parola. Ma ne era valsa la pena. Si poteva sempre trovare la frase giusta comunicante il giusto senso di abbandono.
Victor percepì l’arrivo di qualcuno, ma non alzò lo sguardo. Voltò un’altra pagina del libro, dove stava lavorando ad uno degli altri esercizi. Iniziò a segnare tutto il paragrafo, riga per riga, lasciando che il pennarello emettesse un suono lento e regolare come un respiro. Si meravigliò, per una volta, che i libri dei suoi genitori parlassero di self-help, e non nel modo in cui ci si aspetterebbe. Trovava il loro suggerimento di distruzione incredibilmente rilassante, come sostituissero una specie di meditazione.
“Stai ancora vandalizzando le proprietà della scuola?”
Victor alzò lo sguardo e riconobbe Eli sopra di lui. La copertina di plastica della biblioteca si increspò sotto i suoi polpastrelli nel mentre inclinava il libro per mostrarne il dorso ad Eli, dove vi era stampato in grassetto il nome VALE. Non aveva intenzione di pagare $25,99 quando la biblioteca di Lockland possedeva una raccolta così generosa della dottrina di self-help dei Vale. Eli afferrò il libro e lo sfogliò.
“Forse… è… nel… nostro… migliore interesse… arrendersi… rinunciare… piuttosto che sprecare… parole.”
Victor scrollò le spalle. Non aveva ancora finito.
“Hai lasciato una parola di troppo, prima di arrendersi,” disse Eli, restituendo il libro.
Victor lo riprese e aggrottò la fronte, tracciando il dito lungo la frase finché non trovò il suo errore e lo cancellò.
“Hai davvero un sacco di tempo libero vedo, Vic.”
“Dovresti imparare a crearti il tempo necessario per perseguire i tuoi interessi,” recitò l’altro, “per definire te stesso: scoprire le tue passioni, comprendere quali siano i tuoi progetti, trovare la giusta penna. Trovala e scrivi la tua storia.”
Eli lo fissò per un lungo istante, corrugando la fronte. “È patetico.”
“È una citazione dall’introduzione,” precisò Victor. “Non ti preoccupare, l’ho cancellata.” Lasciò scorrere ancora una volta le pagine, attraversando un fiume di lettere oscurate di nero, fino a raggiungere l’inizio. “Hanno completamente assassinato Emerson.”
Eli si strinse nelle spalle. “Tutto quello che so è che questo libro sembra parlare della visione di un drogato.” Commentò.
Aveva ragione, i quattro segni di pennarello opera di Victor sopra la copertina emettevano un odore incredibilmente forse, cosa che Victor trovava disgustoso e affascinante allo stesso tempo. Richiamava a suo modo la sensazione di distruzione stessa, ma suppose che quell’odore fosse solamente un’aggiunta inaspettata alla complessità del progetto, o così avrebbe sostenuto l’insegnante di arte. Eli appoggiò la schiena contro la cancellata. I suoi capelli ricci e castani erano investiti dal sole, facendone emergere i riflessi rossastri e persino qualche filamento dorato. I capelli di Victor erano invece di un biondo chiarissimo. Quando la luce del sole li colpiva, non faceva emergere in loro alcuna variante di colore, accentuandone unicamente la mancanza, facendolo sembrare come uscito da una vecchia foto in bianco e nero.
Eli stava ancora fissando il libro tra le mani di Victor.
“Il pennarello non traspare sull’altra facciata della pagina?”
“Lo farebbe,” disse Victor, “se solo non avessero usato questa carta strana e spessa. Come se volessero aumentare il senso di peso contenuto in questo tomo.”
La risata di Eli fu offuscata dalla seconda campana, che risuonò attraverso il campo desolato. Le campane non erano dei veri campanelli, ovviamente — Lockland era troppo civilizzato per qualcosa del genere — ma erano altrettanto rumorose, quasi inquietanti, e comunque provenienti dal campanile centrare del campus. Eli imprecò e aiutò Victor a rimettersi sui suoi piedi, pronto a tornare verso il complesso scientifico, edifici composti da facciate in mattoni rossi – giusto per farli sembrare ancora più anonimi.
Victor se la prese con comodo. Avevano ancora un minuto prima che suonasse l’ultima campana, e anche se sarebbero arrivati in ritardo, gli insegnanti non li avrebbero comunque rimproverati. Tutto quello che avrebbe dovuto fare Eli sarebbe stato sorridere, mentre Victor si sarebbe inventato una qualche giustificazione. Entrambe le azioni si dimostravano sempre incredibilmente valide.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR sedeva nelle ultime file del Seminario Comprensivo di Scienze – un corso progettato per reintegrare gli studenti di varie discipline scientifiche per le loro tesi di maturità – ascoltando la lezione riguardante la metodologia delle ricerche scientifiche. O almeno, era stato detto che quello sarebbe stato il tema. Afflitto dal fatto che l’intera classe si sarebbe affidata ai computer portatili, e dal momento che digitare le parole sullo schermo non gli dava la stessa soddisfazione di scriverle a carta, Victor aveva iniziato ad osservare quello che facevano gli altri studenti: c’era chi dormiva, chi scarabocchiava, chi si stiracchiava, mentre gli altri si concentravano per riportare gli appunti in digitale. Senza grande sorpresa, non riuscì a mantenere la concentrazione su di loro molto a lungo, e poco dopo scostò lo sguardo verso le finestre e oltre ai prati. Oltre a tutto.
La sua attenzione tornò di scatto alla lezione quando Eli alzò la mano. Victor non aveva sentito la domanda, ma guardò il suo compagno di stanza sorridere fiducioso. Eliot – Eli – Cardale tendeva sempre a complicare le situazioni. Victor non era stato felice di ritrovarselo in piedi sulla soglia della sua stanza di dormitorio la prima settimana del secondo anno di corsi. Il suo primo compagno di stanza aveva improvvisamente cambiato idea (non per colpa di Victor, ovviamente) e si era ritirato. A causa di una carenza di studenti o forse di un errore di archiviazione, a nessuno venne assegnato quel posto letto quell’anno, così il giovane Victor poté godere dell’intera camerata. Fino a quando, dall’inizio di Ottobre, Eliot Cardale – che Victor aveva deciso immediatamente sorridere troppo – era apparso nell’atrio con tanto di valigia.
Victor si era inizialmente chiesto cosa avrebbe potuto fare per cercare di ri-avere di nuovo la stanza tutta per sé anche per quell’anno, ma prima che potesse elaborare un qualche piano, accadde una cosa piuttosto strana. Eli cominciò ad… affascinarlo. Sembrava essere la tipologia di ragazzo che se la riesce a cavare con tutto, grazie ai suoi geni e alla sua furbizia. Sembrava nato per capitanare le squadre sportive o qualche tipologia di società, ma a quanto poté constatare Victor, sorprendendo tutti, egli dimostrò di non avere nessuna inclinazione ad eccellere nel campo. Quella piccola sfida sociale lo fece diventare immediatamente più interessante agli occhi di Victor.
Ma ciò che affascinava maggiormente Victor era quel qualcosa che rendeva Eli profondamente sbagliato. Era come una di quelle immagini piene di piccoli errori quasi impercettibili, del tipo che si riescono a trovare solamente se si sa che ci sono, cercandoli in goni altro, e anche facendolo, trovare difficoltà nel coglierli tutti. In superficie, Eli sembrava un ragazzo perfettamente normale, ma ogni tanto Victor riusciva a scorgere qualcosa, uno sguardo di traverso, un momento in cui il visto del suo compagno di stanza e le sue parole, il suo aspetto e la contrazione dei suoi lineamenti non avrebbero comunicato la stessa cosa. Quei fugaci squarci lo affascinavano. Era come guardare due persone, una nascosta sotto la pelle dell’altra. E la loro pelle era sempre troppo secca, quasi sul punto di scoppiare e mostrare ciò che vi era al di sotto.
“Molto astuto, signor Cardale.”
Victor si era perso sia la domanda che la risposta. Alzò lo sguardo quando il Professor Lyne rivolse la sua attenzione sul resto dei suoi studenti, e batté le mani una volta sola con finalità.
“Molto bene. È ora che dichiariate le vostre tesi.”
La classe, composta per la maggioranza da studenti di aspiranti medici, fisici e persino un ingegnere – non Angie, però, lei era stata assegnata ad una sezione diversa – si lasciarono sfuggire un brontolio collettivo.
“Suvvia,” disse il professore, mettendo fine alla protesta. “Sapevate a cosa sareste andati incontro al momento dell’iscrizione.”
“No, invece,” obbiettò Max. “È un corso obbligatorio.” Quell’osservazione creò un mormorio di assenso da parte della classe.
“Le mie più sincere scuse, allora. Ma ora siete qui, e come vedete non c’è tempo migliore come quello attuale per—”
“La prossima settimana sarebbe meglio,” propose Toby Powell, un surfista dalle spalle larghe, aspirante medico e figlio di un qualche governatore. Max si era solo guadagnato un brusio, ma questa volta gli altri studenti risero con un tono abbastanza alto, proporzionato al livello di popolarità di Toby.
“Basta così,” rimbeccò il Professor Lyne. La classe si acquietò. “Ora, Lockland incoraggia un certo libello di… operosità dove questa è prevista, e offre proporzionatamente un certo grado di libertà, ma devo avvisarvi: ho tenuto questi seminari di tesi per sette anni e non farete di certo un favore a voi stessi se cercherete di volare basso senza farvi notare; tuttavia, una tesi ambiziosa non vincerà dei pugni unicamente per la sua ambizione. I vostri voti dipenderanno dal contenuto. Trovate un argomento che si avvicini alle vostre aree di interesse in modo che si riveli un’esperienza produttiva ed evitate di selezionarne uno sul quale vi considerate già degli esperti.” Offrì a Toby un sorriso sprezzante. “Inizieremo da lei, Signor Powell.”
Toby si passò le mani tra i capelli, pietrificato. L’avvertimento del professore aveva chiaramente sconvolto la sua fiducia su qualsiasi fosse stato l’argomento che aveva deciso di portare. Emise una serie di farfugli nel mentre sfogliava repentinamente i suoi appunti.
“Ehrm… T helper 17 cellule e l’immunologia.” Prestò molta attenzione a non lasciare che la sua voce non cambiasse livello di volume al termine della risposta.
Il Professor Lyne lo lasciò in sospeso per un istante e tutti attesero di constatare se avrebbe lanciato a Toby “quello sguardo” – un lieve sollevamento del mento con la testa leggermente inclinata per il quale era diventato famoso; uno sguardo che diceva ‘forse dovresti riprovare’ – ma finalmente lo onorò con un piccolo cenno di assenso col capo.
Il suo sguardo cambiò soggetto. “Signor Hall?”
Max fece per aprire la bocca quando venne subito fermato da Lyne, “Niente tecnologia. Scienza sì, tecnologia no. Quindi scelga con cautela.”
La bocca di Max si richiuse di scatto, come se si fosse messo improvvisamente a considerare quel suggerimento.
“L’efficacia elettrica nell’energia sostenibile,” disse dopo un attimo di pausa.
“Hardware contro software. Scelta ammirevole, Signor Hall.”
Il Professor Lyne riprese a scorrere l’aula con gli occhi.
Modelli di ereditarietà, equilibri e radiazioni vennero approvati, mentre gli affetti dell’alcool/sigarette/sostanze illegali, le proprietà chimiche delle metanfetamine e la risposta del corpo al sesso si aggiudicarono tutte “‘quello sguardo”. Uno per uno, gli argomenti vennero accettati o modificati.
“Il prossimo,” ordinò il Professor Lyne, con un senso dell’humor nettamente diminuito.
“Pirotecnica chimica.”
Una lunga pausa. L’argomento era stato proposto da Janine Ellis, le cui sopracciglia non erano ancora ricresciute del tutto dalla sua ultima sessione di ricerca. Il Professor Lyne sospirò, lanciando ancora una volta “quello sguardo”, ma Janine si limitò a sorridere e a quanto pareva non c’era molto che Lyne potesse dire. Ellis era una degli studenti più giovani nella classe e aveva scoperto, quando era solamente al suo primo anno, una nuova e vivace tonalità di blu che delle compagnie di fuochi d’artificio di tutto il mondo avevano iniziato ad adoperare. Se era disposta a rischiare le sue sopracciglia per perseguire i suoi progetti, era affar suo.
“E lei, Signor Vale?”
Victor guardò il suo professore, restringendo il campo delle sue opzioni. Non era mai stato particolarmente eccezionale in fisica, e nonostante trovasse la chimica divertente, la sua vera passione era la biologia – l’anatomia e la neuroscienza. Gli sarebbe piaciuto approfondire un argomento potenzialmente sperimentale, ma avrebbe preferito non rischiare le sopracciglia. E mentre era lì all’istituto erano arrivate un sacco di offerte da scuole di medicina, programmi di laurea, e diversi laboratori di ricerca gli avevano inviato diversi messaggi per posta (rimaste sopra e sotto la scrivania per mesi). Lui ed Eli avevano usato quelle lettere per decorarci le pareti della loro stanza. Non con i fogli dei messaggi stessi, ma con le buste, tutte intrinseche di lodi ed elogi scritte a mano. Nessuno dei due aveva bisogno di rispondere a quelle proposte.
Vicort guardò Eli, chiedendosi che cosa avrebbe scelto lui.
Il Professor Lyne si schiarì la gola.
“Induttori di adrenalina,” scherzò Victor.
“Signor Vale, ho già respinto una proposta che coinvolge –”
“No,” ribatté Victor, scuotendo la testa. “Adrenalina e i suoi induttori e conseguenze. Lo spettro biochimico. Lottare o scappare. Quel genere di cose.”
Osservò lo sguardo del Professor Lyne, in attesa di una qualche segno, e alla fine il professore annuì.
“Non farmene pentire,” disse. Poi si rivolse ad Eli, l’ultima persona a dover rispondere. “Signor Cardale?”
Eli sorrise tranquillo. “EOs.”
L’intera classe, che nel frattempo si era messa a bisbigliare distraendosi, si ammutò. Le chiacchiere di sottofondo e il suono della battitura sui tasti si spense nel mentre il Professor Lyne osservava Eli con uno sguardo nuovo, uno sguardo sorpreso misto a confusione, temperato solo dalla comprensione per il fatto che Eliot Cardale fosse costantemente posto al vertice della classe, in cima all’intero reparto aspirante-medico del dipartimento, anche – beh, se competeva con Victor per ottenere esattamente il primato.
Quindici paia di occhi si mossero tra Eli ed il Professor Lyne mentre il momento di silenzio si era talmente tanto prolungato da iniziare a provocare delle sensazioni di disagio. Eli non era il tipo di studente che agli esami proponeva un argomento giusto per scherzo. Ma non poteva dire sul serio.
“Temo che dovrà ampliare l’argomento.” Commentò cautamente Lyne.
Il sorriso di Eli non vacillò. “Un argomento per la fattibilità teorica dell’esistenza di persone Extra-Ordinarie, estrapolata dalle leggi biologiche, chimiche e psicologiche.”
La testa del Professor Lyne si inclinò muovendo il mento, ma non aprì la bocca. Tutto quello che disse fu, “Sia prudente, Signor Cardale. Così come mi ero raccomandato, la sola ambizione non ripagherà. Confido nel fatto che riuscirai ad elaborare qualcosa.”
“Dunque, sarebbe un sì?”
La prima campana suonò.
Nessuno si alzò.
“Bene,” sentenziò il Professor Lyne.
Il sorriso di Eli si allargò.
Bene? Rifletté Victor. E, leggendo gli sguardi di tutti gli altri studenti all’interno della classe, vi trovò dalla curiosità alla sorpresa ed invidia.
Era uno scherzo. Doveva esserlo. Ma il Professor Lyne si raddrizzò e riprese la sua tipica compostezza.
“Avanti, studenti,” disse. “Create dei cambiamenti.”
La stanza si animò. Le sedie scattarono indietro, i tavoli rovesciati, le borse sollevate e la classe si rivolse nei corridoi, trascinandovi anche Victor. Si guardò intorno alla ricerca di Eli e notò che era rimasto in classe, a parlare vivacemente con il Professor Lyne. Per un momento, la sua calma costante parve essere scomparsa dal suo sguardo e i suoi occhi brillarono di energia, scintillando con avidità. Ma quando si ritirò anche lui nel corridoio, quella luce svanì, nascosta dietro ad un sorriso casuale.
“Che diamine volevi fare?” domandò Victor. “So che la tesi non ha poi molta importanza ora come ora, ma – voleva essere una specie di scherzo?”
Eli scrollò le spalle, e prima che potesse affrontare la domanda, il suo telefono vibrò nella sua tasca. Victor si appoggiò contro il muro mentre Eli prendeva il dispositivo per rispondere.
“Ehy, Angie. Sì, arriviamo.” Riattaccò senza neppure aspettare un’eventuale risposta.
“Siamo stati convocati.” Eli cinse le spalle di Victor con il braccio. “La mia dolce damigella è affamata. Non oserei farla attendere troppo.”


 
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view post Posted on 3/2/2018, 16:18
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– CAPITOLO 03 –
LA SCORSA NOTTE
CIMITERO DI MERIT


LE BRACCIA di Sydney cominciarono a dolerle a forza di sollevare la pala, ma per la prima volta da almeno un anno non aveva freddo. Le bruciavano le guance per il freddo, ma sotto il fitto cappotto sudava e si sentiva viva.
Per quanto la riguardava, quella era l’unica cosa buona del disseppellire un cadavere.
“Non potremmo fare qualcos’altro?” Chiese appoggiando il proprio peso sulla pala.
Conosceva la risposta di Victor, poteva sentire la sua pazienza assottigliarsi sempre di più, ma doveva chiederlo ancora perché parlare era l’unica cosa che la distraeva dal fatto di trovarsi sopra ad un corpo che stavano per tirare fuori da sotto al terriccio.
“Il messaggio dev’essere chiaro,” disse Victor senza smettere di scavare.
“Beh, allora potremmo inviarne uno diverso,” disse sottovoce.
“Dev’essere così, Syd,” insistette lui, alzando infine lo sguardo. “Quindi cerca di pensare a qualcos’altro, se ti fa piacere.”
Lei sospirò e riprese a smuovere il terreno. Dopo poche vangate, si fermò. Aveva quasi paura di sollevare altre questioni.
“Tu a che cosa stai pensando, Victor?”
Lui fece un piccolo sorriso. “Sto pensando a quanto sia piacevole questa serata.”
Sapevano entrambi che era una bugia, ma Sydney decise che preferiva non conoscere la verità.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR non stava pensando al tempo.
Sentiva a malapena il freddo attraverso il cappotto. Era troppo occupato a cercare di immaginare che faccia avrebbe fatto Eli quando avrebbe ricevuto il messaggio. Cercando di immaginare lo shock, la rabbia e, mischiata al tutto, anche la paura. Paura perché avrebbe potuto significare una cosa soltanto.
Vicort era fuori. Victor era libero.
E Victor stava andando da Eli – proprio come gli aveva promesso.
Affondò la pala nella terra fredda con un soddisfacente tonfo.


 
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view post Posted on 4/2/2018, 16:29
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– CAPITOLO 04 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND



DAVVERO hai intenzione di non dirmi di che cosa si tratta?” domandò Victor mentre seguiva Eli attraverso le massicce doppie porte della Lockland International Dining Suite, più comunemente conosciuta come LIDS.
Eli non rispose, ma scansionò la mensa alla ricerca di Angie.
Secondo Victor l’intero luogo ricordava una sorta di parco a tema, una zona caffetteria con al centro diverse file ordinate di tavoli sopra cui erano sistemati dei menù in carta plastificata con undici opzioni di servizio diverse, scritte con dei font caratteristici per ognuna. Alle porte vi era un bistrot, in modo che le persone potessero aspettare il proprio turno per un tavolo. Accanto a questo vi era un bancone che serviva pizza con tanto di musica italiana in sottofondo, dietro ad esso erano sistemati diversi forni per la cottura a legna. Dall’altra parte della sala vi era un’altra zona dedicata alla cucina fusion orientale, decorato con lanterne carca, luminose e colorate. Per il resto, c’erano altri servizi per cibi più comuni che servivano hamburger, insalate, frullati e basici caffè.
Angie Knight era seduta nelle vicinanze del ristoro italiano, roteando degli spaghetti con la forchetta, con i riccioli ramati che le ricadevano sugli occhi nel mente era intenta a leggere un libro affiancato al vassoio del suo cibo. Un piccolo formicolio attraversò Victor quando la vide, quel brivido voyeuristico che viene quando si riesce a scorgere qualcuno che si conosce prima che questo se ne accorga. Ma quel momento finì subito quando anche Eli la inquadrò e catturò lo sguardo di lei senza dire una parola. Erano come due magneti, pensava Victor, l’uno che attirava l’altra. Lo dimostravano a lezione, quando andavano in giro per il campus, le altre persone lo percepivano. Anche Victor riusciva a captarlo. E poi, quando si avvicinavano l’un l’altra… beh, si può immaginare.
Le braccia di Angie circondarono il collo di Eli all’istante, schiacciando le labbra contro quelle di lui.
Victor distolse lo sguardo, concedendo loro un momento di intimità, il che era assurdo dal momento che la loro manifestazione di affetto era molto… pubblica. Una professoressa alzò lo sguardo dal suo giornale, lanciando loro uno sguardo di dissenso. Alla fine, Eli ed Angie si separarono e lei racchiuse anche Victor in un abbraccio, un gesto semplice ma affettuoso, niente di pretenzioso.
E andava bene così. Non era innamorato di Angie Knight. Anche se l’aveva conosciuta prima lui, anche se doveva ammettere di essere stato attratto da lei una volta, e lei si era seduta vicino a lui al LIDS quella prima settimana di scuola al loro primo anno. Anche se non avevano conosciuto Eli fino all’anno successivo, quando Victor aveva invitato il suo nuovo compagno di stanza a sedersi con lui a cena perché aveva pensato che sarebbe potuto essere un gesto gentile.
Maledetta empatia, pensò mentre Angie si ritraeva e tornava al suo posto.
Eli si prese una zuppa, mentre Victor optò per del cibo asiatico, e si sedettero tutti e tre nel bel mezzo della sala per mangiare e conversare, anche se Victor avrebbe voluto disperatamente scoprire che cosa intendeva fare Eli per la sua tesi. Ma sapeva che era meglio non chiedere davanti ad Angie. Angie Knight era una vera forza; una forza con le gambe lunghe e super curiosa. Aveva solo vent’anni, era stata ambita dalle migliori scuole durante l’adolescenza, e tutt’ora che andava all’università continuava a ricevere proposte per delle specializzazioni di alto livello. Proprio recentemente aveva accettato un’offerta di uno studio di ingegneria e, dopo la laurea, sarebbe stata la più giovane, la più brillante dipendente della loro azienda. Non avrebbe avuto neppure ancora l’età legale per bere.
Inoltre, a giudicare dagli sguardi che gli altri studenti avevano dedicato ad Eli quando aveva dichiarato l’argomento della sua tesi di laurea, quella notizia avrebbe presto raggiunto anche lei.
Alla fine, dopo aver terminato il pranzo, suonò la campanella e Angie si diresse alla sua prossima lezione. Non aveva l’obbligo di frequentarla, a dire il vero, ma l’aveva scelta come materia extra-curricolare. Eli e Victor rimasero seduti al tavolo ad osservare la sua nuvola di capelli ramati svolazzarle con disinvoltura alle spalle, nel mentre si orientava verso la sua lezione di chimica forense, o di meccanica, o di qualunque altro argomento avesse scelto come progetto questa volta.
O meglio, Eli la guardò allontanarsi, e Victor osservò Eli che la guardava e qualcosa gli si contorse nello stomaco. Non era solo il fatto che Eli gli avesse rubato Angie – il che era già abbastanza brutto – ma in qualche modo anche Angie gli aveva rubato Eli. Il lato più interessante di Eli, comunque fosse. Non quello con i denti perfetti e la risata facile, ma quello brillante e con lo sguardo tagliente, quasi come un vetro rotto. Ed era in quei pezzi frastagliati che Victor notava qualcosa di familiare. Qualcosa di pericoloso e affamato. Ma quando Eli era con Angie, non mostrava mai quel lato di sé. Era un ragazzo modello, premuroso e attento, alquanto noioso, e Victor si ritrovò a studiare il suo amico dietro alla scia di Angie, alla ricerca di un qualche segnale nascosto.
Passarono diversi minuti in silenzio mentre la sala mensa si svuotava, e poi Victor perse la pazienza e tirò un calcio contro Eli da sotto al tavolo. Gli occhi di lui si alzarono pigramente dal suo cibo. “Sì?”
“Perché gli EOs?”
L’espressione di Eli pian piano si rilassò. “Tu ci credi?” domandò, passando il cucchiaio per noia in quello che ne rimaneva della sua zuppa.
Victor esitò, morsicchiando un pezzo di pollo al limone. EO. Extra-Ordinari. Ne aveva sentito parlare, nel modo in cui le persone sentono parlare di fenomeni discussi da altri in situazioni occasionali, dove gli era stato raccontato di persone che riuscivano a sollevare automobili con la propria sola forza e di altri che erano stati inghiottiti dal fuoco senza bruciare. Sentire parlare di EO e crederci erano due paia di maniche piuttosto diverse, e non sapeva dire dal toto di Eli su quale sponda di pensiero si trovasse. Non sapeva neppure che cosa avrebbe voluto che rispondesse, il che gli rendeva piuttosto difficile farlo.
“Beh,” insistette Eli. “Ci credi?”
“Non saprei,” ammise Victor, “Se si tratta di crederci…”
“Tutto ha principio da un credo,” considerò Eli. “Con la fede.”
Victor provò un senso di disagio. Trovava difficile comprendere Eli, ma l’ultimo argomento che mai si sarebbe aspettato di sentirlo affrontare era quello religioso. Fece del suo meglio per ignorarlo, ma sarebbe stato un costante ostacolo nel conversare con lui. Eli doveva aver intuito la sua posizione.
“Chieditelo adesso, allora,” concesse. “Riesci a chiederterlo?”
Victor si domandava molte cose. Si faceva domande su sé stesso, o su altre persone. Si faceva domande su Angie: cosa sarebbe successo se le avesse detto quello che sentiva, e come sarebbe se lei avesse scelto lui. Si faceva domande sulla vita della gente, sulla scienza, sulla magia e su Dio, e se credesse in almeno una di queste cose.
“Sì,” concluse lentamente.
“Beh, quando ci si chiede qualcosa,” disse Eli, “non vuol dire forse che una parte di te ci vuole credere? Credo che si aspiri di più a dimostrare le cose, nella vita, più di quanto le si vogliano confutare. Vogliamo crederci.”
“E tu vuoi credere ai supereroi.” La voce di Victor era attentamente priva di giudizio, ma non riuscì a negarsi un sorriso. Sperava che Eli non si offendesse, che lo cogliesse come un gesto di buonumore – di leggerezza, e non come una presa in giro – ma non lo fece.
“Bene, sì, è stupido, giusto? Hai ragione. Non me ne frega niente della tesi. Volevo solo vedere se Lyne mi avrebbe permesso di farla franca,” disse, mostrando un sorriso piuttosto vuoto e alzandosi dal tavolo. “Tutto qui.”
“Aspetta,” lo interruppe Victor. “Non è vero.”
“Sì, invece.”
Eli si voltò, lasciò cadere il vassoio e se ne andò prima che Victor riuscisse a raggiungerlo.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR teneva sempre un pennarello indelebile nella tasca posteriore dei pantaloni.
Mentre vagava per le varie corse della biblioteca alla ricerca di alcuni libri per iniziare lo studio della sua tesi, le sue dita prudevano all’idea di tirarlo fuori. La sua conversazione con Eli era fallita e lo aveva messo in difficoltà; ora desiderava trovare la sua calma, la sua pace, il suo Zen personale, nella lenta e accurata cancellazione delle parole scritte da altri. Infine raggiunse la sezione medica senza troppa difficoltà, aggiungendo un libro sul sistema nervoso umano a quello che aveva già preso sulla psicologia. Dopo aver trovato alcuni testi più brevi sulle ghiandole surrenali e sull’impulso umano, andò a controllare, prestando attenzione a dove metteva le dita – ormai macchiate in modo permanente dai suoi progetti artistici – nascoste nelle sue tasche o sotto il bordo del bancone mentre il bibliotecario controllava l’elenco dei libri. C’erano state alcune lamentele durante il suo periodo alla Lockland riguardo a dei libri “vandalizzati”, se non addirittura “completamente rovinati”.
Il bibliotecario lo guardò al di sopra della pila, come se avesse avuto i suoi crimini stampati in faccia anziché sulle dita, prima di esaminare alla fin fine i libri e confermargli l’affitto.
Tornato all’appartamento che condivideva con Eli all’università, Victor si diresse nella sua camera e disfò la sua borsa. Si inginocchiò e depose il libro di self-help sullo scaffale più basso, accanto ad altri due che aveva già precedentemente controllato, silenziosamente compiaciuto del fatto che nessuno avesse ancora richiesto di avere quegli altri volumi indietro. Appoggiò i libri sull’adrenalina sulla scrivania. Sentì la porta aprirsi e dei passi percorrere la sala principale, dove pochi minuti dopo trovò Eli buttato sul divano. Aveva sistemato una pila di libri e dei tabulati sul tavolino di legno, ma quando vide entrare Victor, allungò la mano verso una rivista casuale lì presente e cominciò a sfogliarla con fittizio disinteresse. I libri sul tavolo trattavano degli argomenti più svariati, dalle funzioni cerebrali sotto stress alla volontà umana, all’anatomia, alle risposte psicosomatiche… ma i tabulati erano diversi. Victor ne prese uno e si sedette su una sedia per leggerlo. Eli si accigliò, ma non lo fermò. Le stampe provenivano da alcuni siti web e forum. Non sarebbero mai state accettate come fonti per la tesi.
“Dimmi la verità,” disse Victor, rimettendo insieme i fogli in modo ordinato sul tavolino.
“Riguardo cosa?” chiese Eli distrattamente.
Victor alzò lo sguardo, i suoi occhi azzurri fissi su di lui, in attesa che Eli mettesse da parte la rivista, si alzasse e si rivolgesse verso di lui.
“Perché io credo che potrebbero esistere,” disse. “Forse,” sottolineò. “Ma vorrei considerare questa possibilità.”
Victor rimase sorpreso dalla sincerità nella voce dell’amico.
“Vai avanti,” lo incoraggiò, offrendogli il migliore sguardo fiducioso che riuscisse a fare.
Eli fece correre le dita sopra la pila di libri. “Prova a dare un’occhiata a questi. Nei fumetti ci sono almeno due modi fissi in cui si possa generare un super-eroe. In modo naturale o innaturale. Prendiamo Superman, ad esempio, che è nato così, e Spider-Man, che invece lo è diventato in seguito. Mi segui?”
“Sì, certo.”
“Se facessi anche solo una ricerca Web basica sugli EO—” fece un cenno ai tabulati “— scopriresti lo stesso divario. Alcune persone sostengono che gli EO nascano già essendo ExtraOrdinari, e altre che ipotizzano lo diventino inseguito alle cose più disparate. Insetti radioattivi o velenosi, o qualsiasi altra cosa. Supponiamo di riuscire a trovare un EO, e di avere quindi la prova della loro esistenza, quello che rimane da scoprire è il ‘come’. Sono nati così? O lo sono diventati?”
Victor osservò il modo in cui gli occhi di Eli brillarono quando parlava degli EO, e il cambiamento nel suo tono – più basso, più urgente – con i muscoli del volto tesi nervosamente nel mentre cercava di nascondere la sua eccitazione. Lo zelo sbirciò attraverso gli angoli della sua bocca, il fascino nel suo sguardo, l’energia nella sua mascella. Victor osservò l’amico, ipnotizzato dalla sua trasformazione. Avrebbe potuto emulare quelle stesse emozioni per farlo felice, ma gli sarebbe stato impossibile eguagliare lo stesso… fervore. Non ci provò neanche. Rimase calmo, ascoltò, lo sguardo attento e riverenziale così che Eli non si scoraggiasse, che non facesse un passo indietro.
L’ultima cosa che Victor avrebbe voluto era che lo escludesse. Gli ci erano voluti due anni di amicizia per riuscire a superare il guscio carismatico e scoprire ciò che aveva sempre sospettato. E adesso, lì intorno ad un tavolino con sopra accatastate diverse immagini a bassa risoluzione di siti gestiti da perditempo, Eliot Cardale sembrava appena aver trovato Dio. Anzi, meglio, come se avesse trovato Dio e volesse tenerlo segreto seppur non riuscendoci. Sembrava come brillare di una luce propria.
“Dunque,” disse Victor cautamente, “supponiamo che gli EO esistano. Quello che intendi fare è scoprire come?”
Eli gli mostrò quel tipo di sorriso fiducioso che avrebbe potuto fare qualsiasi capo di una qualche setta. “È questa l’idea.”


 
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– CAPITOLO 05 –
LA SCORSA NOTTE
CIMITERO DI MERIT



TANF.
Tanf.
Tanf.

“Quanto tempo sei rimasto in prigione?” domandò Sydney, cercando di rompere il silenzio. Il suono delle pale, combinato al ronzio assente di Victor, non la stava aiutando a rilassare i suoi nervi.
“Troppo a lungo,” rispose Victor.
Tanf.
Tanf.

Le fecero male le dita quando cercò di avvolgerle intorno alla presa della pala. “Ed è lì che hai incontrato Mitch?”
Mitch – Mitchell Turner – era il grosso ragazzone che li stava aspettando nella camera d’albergo. Non perché non gli piacessero i cimiteri, aveva assicurato loro. No, era solo che qualcuno doveva rimanere lì con Dol, e anche perché aveva del lavoro da fare. Molto lavoro. Non aveva niente a che fare con i cadaveri.
Sydney sorrise quando ripensò alle sue scuse. La fece sentire meglio pensare per un attimo a Mitch, il quale aveva le dimensioni di un’auto, e che probabilmente ne avrebbe potuto sollevare una – essere schizzinoso riguardo alla morte.
“Eravamo compagni di cella,” spiegò Victor. “Ci sono molte persone cattive in prigione, Syd, e solo poche decenti. Mitch era uno di quelle.”
Tanf.
Tanf.

“E tu sei uno di quelle cattive?” chiese Sydney. I suoi occhi verdi acqua si fissarono su di lui. Non era sicura se le importasse conoscere la risposta, davvero, ma si sentiva come se dovesse saperlo.
“Qualcuno direbbe di sì,” concluse lui.
Tanf.
Lei continuò a fissarlo. “Non penso che tu sia una persona cattiva, Victor.”
Lui perseverò a scavare. “È tutta questione di punti di vista.”
Tanf.
“Riguardo alla prigione. Ti hanno… lasciati uscire?” chiese piano.
Tanf.
Victor lasciò la pala piantata nel terreno e la guardò. Poi sorrise, cosa che faceva spesso prima di mentirle, “Certo.”


 
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– CAPITOLO 06 –
UNA SETTIMANA PRIMA
PENITENZIARIO DI WRIGHTON



LA PRIGIONE offrì a Victor qualcosa di cui alla fin fine aveva bisogno: tempo.
Cinque anni si isolamento gli avevano dato il tempo di pensare.
Quattro anni effettivi (grazie ai tagli al budget e alla mancanza di prove che lo incriminassero maggiormente) gli diedero modo di esercitarsi. 463 detenuti con cui esercitarsi.
E gli ultimi sette mesi gli avevano dato il tempo di pianificare questo momento.
“Lo sapevi,” disse Victor, sfogliando un libro sull’anatomia preso dalla biblioteca del carcere (pensava che fosse particolarmente sciocco dare ai detenuti la possibilità di informarsi dettagliatamente sulla posizione degli organi vitali, eppure…), “quando le persone smettono di avere paura del dolore, perdono anche il timore per la morte? In pratica, sotto il loro punto di vista, si sentono quasi immortali. Ovviamente non lo sono, ma dopotutto siamo tutti mortali fino a prova contraria.”
“Immagino che sia così,” rispose Mitch, alquanto preoccupato.
Mitch era il compagno di cella di Victor al Penitenziario Federale di Wrighton. Victor si era affezionato abbastanza a Mitch, in parte perché Mitch sembrava essere completamente disinteressato della politica carceraria, e in parte perché possedeva un’intelligenza particolare. Le persone non sembravano voler avere a che fare con lui a causa della sua stazza, ma Victor riusciva a riconoscere il suo valore. Per esempio, Mitch stava attualmente cercando di fare andare in cortocircuito una telecamera di sicurezza con una gomma da masticare, una sigaretta e un piccolo pezzo di filo che Victor era riuscito a procurargli qualche giorno prima.
“Capito,” disse Mitch pochi istanti dopo, quando Victor stava già sfogliando il capitolo sul sistema nervoso. Mise da parte il libro e fletté le dita nel mentre una guardia passava per il corridoio.
“Andiamo?” Chiese mentre l’aria cominciava a farsi pesante.
Mitch percorse la cella con lo sguardo per un lungo istante ed annuì. “Dopo di te.”


 
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– CAPITOLO 07 –
DUE GIORNI PRIMA
IN VIAGGIO


LA PIOGGIA batteva contro il tettuccio della macchina. L’acqua cadeva così fitta che era difficile distinguere ciò che si stagliava in lontananza, e l’unico momento per avere un po’ di visibilità era quando passavano i tergicristalli sul parabrezza, ma né Mitch né Victor si lamentarono. Dopo tutto, la macchina su cui stavano era stata rubata, e la poca visibilità era loro di aiuto. Avevano guidato senza riscontrare problemi per un’intera settimana, fino a quando non avevano deciso di essere abbastanza lontani dalla prigione da potersi concedere una pausa.
L’ultimo cartello stradale che avevano superato diceva MERIT-23 MIGLIA.
Mitch guidava e Victor cercava di osservare quel poco che era distinguibile al di là del finestrino. Sembrava andare tutto così veloce. Tutto gli dava quella sensazione dopo essere rimasto rinchiuso dentro una cella per dieci anni. Tutto lo faceva sentire così libero. Per i primi giorni guidarono senza meta, l’importante era continuare ad andare. Victor non sapeva dove sarebbero giunti. Non aveva neppure deciso da dove iniziare a cercare. Dieci anni erano stati un tempo abbastanza lungo per pianificare i dettagli per la loro fuga dalla prigione. Nel giro di un’ora avevano trovato dei vestiti nuovi, e successivamente anche dei soldi, ma dopo una settimana non aveva ancora pensato da dove cominciare per cercare Eli. Fino a quella mattina.
Aveva preso il National Mark, il giornale nazionale, da una stazione di servizio per sfogliarlo distrattamente, e il destino gli aveva sorriso. O perlomeno, qualcuno lo aveva fatto. Victor sorrise alla vista di una foto stampata sulla destra di un articolo intitolato:

CIVILE EROE SALVA BANCA

La banca in questione si trovava a Merit, una metropoli a metà strada tra Wrighton e Lockland. Lui e Mitch si diressero subito lì senza niente a fermarli. Era una città piena di gente, persone che Victor avrebbe potuto interrogare, persuadere o costringere a dargli delle informazioni. Una città piuttosto promettente.
Aveva comprato un’intera copia del National Mark, ma aveva tenuto con sé solamente quella pagina, facendola scivolare nella sua borsa quasi con riverenza. Era un inizio.
Ora si trovava sul sedile del passeggero con gli occhi chiusi e la testa inclinata contro il sedile nel mentre Mitch, seduto al volante, si occupava di seguire la strada.
Dove sei, Eli? Si domandava. Dove sei, dove sei, dove sei?
Quella domanda gli risuonò nella testa. Se lo era chiesto ogni giorno per dieci anni. Alcuni giorni in modo assente, altri in maniera così intensa da procurargli il mal di testa.
Si raddrizzò sul sedile nel mentre in mondo esterno scorreva intorno a loro. Non avevano preso l’autostrada – non sarebbe stato sicuro per due fuggitivi – anche se questo voleva dire procedere con maggiore lentezza. Ma tutto andava bene, pur di non rimanere fermi in un posto.
Qualche ora dopo, l’auto colpì una piccola buca, allontanando Victor dai suoi pensieri. Sbatté le palpebre e voltò la testa per guardare gli alberi che costeggiavano la strada. Abbassò il finestrino a metà per captare il vento, ignorando le proteste di Mitch riguardo alla pioggia che si sarebbe riversata all’interno dell’auto. Non gli importava dell’acqua o di qualsiasi altra cosa, aveva bisogno di sentirlo. Era il crepuscolo, e in quell’ultimo scorcio di luce giornaliera Victor notò una sagoma che si muoveva lungo il ciglio della strada. Era piccola, con la testa china e ricurva su sé stessa nel mentre arrancava giù per il sentiero. L’auto la superò prima che Victor potesse dire qualcosa.
“Mitch, torna indietro.”
“Perché?”
Victor portò la sua attenzione sull’omone al volante. “Non farmelo ripetere.”
Fecero inversione, con le gomme che scivolarono sull’asfalto bagnato. Raggiunsero di nuovo quella figura, invertendo di nuovo direzione e iniziando a seguire la strada accanto ad essa. Victor tirò giù completamente il finestrino.
“È tutto a posto?” chiese sovrastando il fragore della pioggia.
La figura non rispose. Victor avvertì una strana sensazione. Dolore, ma non era il suo.
“Ferma la macchina,” disse, e questa volta Mitch parcheggiò immediatamente l’auto. Victor scese dalla vettura, alzò la lampo della sua giacca fino a coprire la gola e cominciò a camminare accanto alla persona sconosciuta. Era più alto di questa di diversi centimetri.
“Stai male,” disse al grumo di vestiti bagnati. Non erano le braccia incrociate della figura a farglielo capire, o la macchia scura che aveva sulla manica, o il modo in cui la figura si ritirò bruscamente quando lui allungò la mano. Victor captava il dolore nello stesso modo in cui un lupo percepisce l’odore del sangue.
“Fermati,” disse, e questa volta la figura si bloccò. La pioggia continuava a correre costante e fredda, intorno a loro. “Sali in macchina.”
La figura lo guardò, e il cappuccio bagnato del cappotto ricadde sulle sue spalle strette. Degli intensi occhi azzurri e feroci lo fissarono. Victor conosceva troppo bene il dolore per non rimanere ingannato da quello sguardo ribelle, la mascella incrostata dalle ciocche di capelli biondi bagnati. Non poteva avere più di dodici anni, tredici al massimo.
“Andiamo,” insistette, indicando l’auto ferma accanto a loro.
La ragazzina si limitò a fissarlo.
“Che cosa pensi che ti succederà?” chiese. “Non può di certo andare peggio di quanto già tu non abbia passato.”
Dal momento che lei non fece alcun movimento verso la macchina, lui sospirò indicando il braccio di lei.
“Fammi vedere.” Allungò la mano, scostando la mano della ragazzina dalla giacca. L’aria intorno alla sua mano crepitò come al solito, e la ragazza emise un piccolo sospiro di sollievo. Si strofinò la manica.
“Aspetta,” la intimò lui, spostandole la mano dalla ferita. “Non ho finito di guarirla.”
Gli occhi di lei passarono dall’osservare la sua mano alla sua manica, e poi di nuovo sulla mano.
“Ho freddo,” disse la ragazzina.
“Sono Victor,” si presentò lui. Lei gli offrì un piccolo esausto scorcio di un sorriso. “E ora, che ne dici se ci riparassimo dalla pioggia?”


 
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view post Posted on 17/2/2018, 18:05
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– CAPITOLO 08 –
LA SCORSA NOTTE
CIMITERO DI MERIT


“NON sei una cattiva persona,” ripeté Sydney, gettando del terriccio sopra all’erba. “Ma Eli lo è.”
“Sì. Lo è.”
“Però lui non è finite in prigione.”
“No.”
“Credi che riceverà il messaggio?” Chiese, indicando la tomba.
“Ne sono abbastanza sicuro,” disse Victor. “E se anche non lo facesse, lo farà tua sorella.”
A Sydney si contorse lo stomaco al pensiero di Serena. Nella sua mente, sua sorella maggiore era come due persone diverse, due immagini sovrapposte e mischiate tra loro.
C’era la Serena sulla riva del lago. La Serena che si era inginocchiata a terra davanti a lei il giorno in cui era andata al college – entrambe sapevano che stava abbandonando Sydney in quella casa vuota e desolata – e che le aveva asciugato le lacrime, ripetendole più e più volte che non se ne stava andando, non se ne stava andando.
E poi c’era la Serena dopo quell’avvenimento. La Serena dagli occhi freddi ed il sorriso vuoto, che faceva accadere cose semplicemente nominandole. Quella che aveva attirato Sydney in un campo pieno di cadaveri, convincendola a mostrarle il suo trucco, e sembrando triste quando lo fece. Quella che le aveva voltato le spalle quando il suo ragazzo aveva sollevato la pistola contro di lei.
“Non voglio vederla,” concluse Sydney.
“Lo so,” comprese Victor. “Ma io voglio vedere Eli.”
“Perché?” domandò lei. “Non puoi ucciderlo.”
“Può darsi.” Le sue dita si arricciarono nuovamente intorno alla presa della pala. “Ma metà del divertimento sta proprio nel provare.”


 
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view post Posted on 18/2/2018, 13:18
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– CAPITOLO 09 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND


QUANDO Eli andò a prendere Victor all’aeroporto pochi giorni prima dell’inizio del semestre primaverile, aveva in faccia quel sorriso che rendeva Victor nervoso. Eli era solito fare tanti sorrisi diversi, e quello precisamente voleva nascondere un segreto. Victor non avrebbe voluto interessarsene, eppure lo fece. E dal momento che non riusciva a trattenersi dal farlo, per lo meno cercò di non darlo a vedere.
Eli aveva passato l’intera pausa dal campus facendo ricerche per la sua tesi. Angie si era lamentata perché sarebbe dovuto andare via con lei; Angie, come aveva previsto Victor, non fu entusiasta della scelta della tesi di Eli, né del tempo che avrebbe dovuto impiegare per formularla. Eli aveva detto che avrebbe approfittato delle vacanze per poter parlare con il Professor Lyne, per convincerlo che stava prendendo seriamente la sua tesi, ma a Victor non era piaciuta quella questione, in quanto ciò avrebbe implicato che Eli avrebbe avuto un certo vantaggio. Anche lui aveva richiesto di poter rimanere a scuola anche nel periodo di pausa, ma il permesso gli era stato negato. Aveva perso tutto il controllo che aveva nel cercare di nascondere la rabbia. In qualche modo era riuscito a trovare la forza di stringersi nelle spalle e ricambiare il sorriso, ed Eli aveva promesso di non procedere troppo con il loro progetto – aveva detto loro, non il suo, e questo l’aveva aiutato a calmarsi un po’. Victor non l’aveva più sentito durante tutta la pausa; poi, pochi giorni prima che fosse programmato l’inizio delle lezioni, Eli lo aveva chiamato per informarlo di aver scoperto qualcosa, ma si era rifiutato di rivelargli di cosa si trattasse fino a quando non si sarebbero visti di nuovo.
Victor aveva voluto prenotare il volo precedente a quello che avrebbe dovuto prendere (non vedeva l’ora di andarsene via dai suoi genitori, prima che insistessero di passare il Natale insieme, e prima che potessero ricordargli di quanti sacrifici stessero facendo ogni giorno per poter passare le vacanze insieme a lui), ma non voleva risultare troppo ansioso, così aveva aspettato giorni, lavorando furiosamente alla sua ricerca sull’adrenalina anche se non disponeva di abbastanza documenti per poterlo fare adeguatamente per poterla considerare una sfida equa. Aveva organizzato il lavoro da farsi e deciso come formularlo, ma il più che era riuscito a mettere insieme erano mere ipotesi poco ispirate e forse noiose. Lyne l’aveva definito come un ‘solido profilo’, aveva detto che Victor era partito con il piede giusto. Ma sapeva che Eli era molto più avanti di lui.
E così, quando era salito sul sedile del passeggero della macchina di Eli, si mise a picchiettare le dita sul ginocchio per l’entusiasmo. Si stiracchiò per cercare di fermare il tic, ma non appena raggiunsero nuovamente le gambe, ripresero il loro movimento irrequieto. Aveva passato la maggior parte del volo a concentrarsi sul sembrare indifferente in modo che quando avrebbe rivisto Eli, le prime parole che sarebbero uscite dalla sua bocca sarebbero state dirette, ma ora che erano insieme, la sua compostezza stava venendo meno.
“Ebbene?” domandò, cercando invano di apparire annoiato. “Che cosa hai scoperto?”
Eli strinse la presa sul volante nel mentre guidava verso Lockland.
“Il trauma.”
“Ovvero?”
“È l’unico dettaglio accomunante che sono riuscito a trovare in tutti i casi di EO documentati. Ad ogni modo, i corpi reagiscono in modo particolare se messi sotto stress. L’adrenalina che entra in circolo e tutto il resto, come ben sai. Così ho supposto che sia un qualche elemento traumatico a far mutare chimicamente il corpo.” Cominciò a parlare più velocemente. “Ma il problema è che ‘trauma’ è una parola piuttosto vaga, non trovi? Avevo bisogno di isolare una qualche particolarità. Milioni di persone subiscono traumi quotidianamente. Emotivamente, fisicamente, di ogni genere. Se anche una minima parte di essi diventasse Extra-ordinaria, comporterebbe una percentuale piuttosto rilevante della popolazione umana. Se così fosse, le EO non sarebbero più di una mera ipotesi; sarebbero facilmente individuabili. Sapevo che doveva esserci qualcosa di più specifico.”
“Un solo genere di trauma? Come un incidente?” chiese Victor.
“Esattamente, tranne per il fatto che non sono dei traumi così tanto comuni. Nessuna formula ovvia. Nessun parametro certo. Non all’apparenza, per lo meno.”
Eli lasciò che le sue parole riempissero la macchina. Victor spense la radio per concentrare la sua attenzione sulla discussione. Eli stava praticamente saltellando sul posto.
“Ma?” lo sollecitò, rabbrividendo per il suo avido interesse.
“Ho iniziato a scavare più in fondo,” proseguì Eli, “e ai pochi casi di studio che ho avuto modo di approfondire – quelli non ufficiali, ovviamente – le persone studiate non solo avevano subito un trauma, Vic. Erano morte. Non sembrava da subito perché nove volte su dieci le persone morte restano tali, per il resto neppure si rendono conto di aver affrontato un NDE. Cavolo, metà delle persone non riesce neanche a comprendere che cosa sia.”
“NDE?”
Eli lo guardò. “Near Death Experience, esperienze vicine alla morte. E se un EO non fosse un prodotto di un qualsiasi trauma? E se i loro corpi avessero trovato modo di reagire al più ingente trauma fisico e psicologico possibile? Morte. Pensaci, il tipo di trasformazione di cui stiamo parlando non sarebbe possibile con una semplice reazione fisiologica o psicologica. Una cosa del genere richiederebbe un afflusso di adrenalina, paura e consapevolezza piuttosto importante. Si parla di Volontà, di mente piuttosto che materia, ma senza allontanare l’una dall’altra, ma di entrambe in contemporanea. La mente ed il corpo che rispondono in sintonia alla morte imminente, e se in quei casi si rivelano essere entrambi abbastanza forti – e in quel caso potrebbe trattarsi di una qualche predisposizione genetica – penso che potrebbe essere una ricetta base per creare un EO.”
La mente di Victor ronzava nel mentre ascoltava quella teoria.
Fletté le dita contro le gambe.
Aveva senso.
Sembrava avere senso ed era semplice ed elegante e Victor la odiava, specialmente perché non era stato in grado di vederlo per primo, avrebbe dovuto essere in grado anche lui di ipotizzare una cosa del genere. L’adrenalina, dopo tutto, era il tema della sua ricerca. L’unica differenza era che stava studiando il suo flusso temporaneo, e Eli era arrivato al punto di suggerirgli un cambio permanente. La rabbia divampò attraverso di lui, ma la rabbia non era produttiva, così la trasformò in pragmatismo nel mentre cercava qualcosa da dire.
“Dì qualcosa, Vic.”
Victor aggrottò le sopracciglia, e mantenne la voce attentamente priva di entusiasmo. “Hai tirato su delle idee, Eli, ma è anche vero che ci sono moltissime altre cose che potresti non sapere. Anche se tu riuscissi a confermare definitivamente che una NDE e una forte forza di volontà di sopravvivere siano dei componenti necessari, pensa a quanti altri fattori potrebbero esserci. Diamine, i soggetti potrebbero avere bisogno di una dozzina di altre caratteristiche per diventare Extra-Ordinarie. Ei due componenti che hai scoperto sono troppo vaghi. Il termine predisposizione genetica da solo comprende migliaia di fattori, ognuna delle quali potrebbe essere cruciale. I soggetti potrebbero aver bisogno di livelli chimici naturali elevati, o di ghiandole volatili? Le loro attuali condizioni fisiche sono rilevanti o bastano che le reazioni innate del loro corpi si mostrino nel determinato momento del cambiamento? Per quanto riguarda lo stato mentale, Eli, come potresti mai riuscire a calcolare i fattori psicologici? Cosa costituisce una forte volontà? È un completo fattore di possibilità.”
“Non do questi elementi per scontati,” disse Eli, sgonfiandosi un po’ mentre parcheggiava. “Questa è una teoria additiva, non deduttiva. Non possiamo comunque celebrare il fatto che abbia fatto potenzialmente una scoperta chiave? Gli EO richiedono delle NDE. Direi che è comunque piuttosto interessante.”
“Ma non è abbastanza,” ribatté Victor.
“Sul serio?” sbottò Eli. “È un inizio. È qualcosa. Ogni teoria ha bisogno di un punto di partenza, Vic. L’ipotesi dell’NDE – questo insieme di reazioni mentali e fisiche al trauma – regge.”
Qualcosa di piccolo e pericoloso stava prendendo forma dentro Victor mentre Eli parlava. Un’idea. Un modo per trasformare la scoperta di Eli in sua, o almeno, nella loro.
“Ed è una tesi,” proseguì Eli. “Sto cercando di trovare una spiegazione scientifica per il fenomeno degli EO. Non sto cercando di ricrearne uno.”
La bocca di Victor si contrasse per poi tramutarsi in un sorriso.
“Perché no?”

♦ ♦ ♦ ♦ ♦


“È un suicidio,” disse Eli addentando il suo panino.
Erano seduti nella sala mensa, la quale era ancora abbastanza vuota non essendo ancora iniziato il semestre primaverile. Solo il ristorante italiano ed il bar avevano già riaperto.
“Beh, sì, è necessario,” disse Victor, sorseggiando il suo caffè. “Ma se dovesse funzionare…”
“Non posso credere che tu stia effettivamente suggerendo questo,” disse Eli. Ma c’era una nota nella sua voce, forse sorpresa, curiosità, energia. Quel fervore che Victor pensava di aver già percepito prima.
“Supponiamo che tu abbia ragione,” insistette Victor, “e che sia una semplice equazione: un’esperienza di pre-morte, molto vicina, oltre ad un certo livello di resistenza fisica e ad una forte forza di volontà –”
“Ma sei tu quello che ha detto che non può essere così semplice, che potrebbero esserci molti altri fattori.”
“Oh, sono sicuro che ci siano,” affermò Victor. Ma aveva l’attenzione di Eli. Gli piaceva avere la sua attenzione. “Chissà quanti. Ma sono disposto ad ammettere che il corpo possa essere capace di cose incredibili nelle situazioni in cui la vita è in pericolo. È di questo che parla la mia tesi, ricordi? E forse hai ragione. Forse anche il corpo è capace di un cambiamento chimico fondamentale. L’adrenalina sembra aver apparentemente dotato delle persone di capacità sovraumane in momenti di estremo bisogno. Degli scorci di potere. Forse c’è un modo per rendere quel momento duraturo.”
“È pazzesco –”
“Non ci credi. Non del tutto. Ma è la tua tesi, dopo tutto,” disse Victor. La sua bocca si piegò leggermente nel mentre posava lo sguardo sul suo caffè. “Per inciso, potresti meritare una A se riuscissi ad elaborare l’argomento.”
Gli occhi di Eli si socchiusero. “La mia tesi voleva essere teorica –”
“Oh, davvero?” commentò Victor con un sorriso pungente. “E che fine ha fatto il discorso sul ‘crederci’?”
Eli si accigliò. Aprì la bocca per rispondere, ma venne interrotto da un paio di braccia sottili intorno al suo collo.
“Come mai i miei ragazzi sembrano così seriosi?”
Victor alzò lo sguardo per vedere i riccioli rossastri, le lentiggini e il sorriso di Angie. “Siete tristi che le vacanze siano finite?”
“Non proprio,” rispose Victor.
“Ehy, Angie,” la chiamò Eli, e Victor osservò la luce dietro ai suoi occhi scomparire, anche quando lei si sospinse verso di lui per dargli uno di quei baci degni del cinema. Victor imprecò interiormente. Aveva lavorato così duramente per convincerlo ad aprirsi e adesso lei lo stava di nuovo deconcentrando. Si alzò seccato dal tavolo.
“Dove vai?” domandò Angie.
“È stata una lunga giornata,” tagliò corto lui. “Sono appena tornato, devo ancora disfare i bagagli…” la sua voce si spense. Angie non gli stava più prestando attenzione. Aveva le dita aggrovigliate tra i capelli di Eli, le labbra contro quelle di lui. Proprio così, li aveva inevitabilmente persi entrambi.
Victor si voltò e se ne andò.


 
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– CAPITOLO 10 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL


VICTOR tenne la porta della stanza dell’hotel mentre Mitch trasportava Sydney – fradicia e ferita – dentro. Mitch era grosso, con la testa rasata, quasi ogni centimetro di pelle visibile era tatuata, ed era largo tanto quanto l’altezza della ragazzina. Lei sarebbe stata perfettamente in grado di camminare da sola, ma Mitch aveva insisto che sarebbe stato più facile tenerla ferma così per riuscire a curarle il braccio. Aveva portato contemporaneamente anche le due valige, che aveva lasciato cadere accanto alla porta.
“Può andare, credo,” disse, osservando allegramente la lussuosa suite.
Victor appoggiò un’altra borsa molto più piccola, si tolse il cappotto bagnato e lo appese all’appendiabiti, si arrotolò le maniche nel mentre indicava a Mitch di portare la ragazzina nel bagno. Sydney sollevò la testa nel mentre veniva portata nella stanza. L’Esquire Hotel, situato nel centro urbano di Merit, aveva un arredamento talmente tanto minimale da far pensare che avessero deciso di gettare via il tutto e tenere il giusto necessario. L’ambiente era quasi completamente spoglio e non vi erano tracce di possibili sedie o divani presenti nella stanza in passato. Il pavimento della stanza era completamente in legno, o qualche fabbricato che vi si avvicinava di aspetto, mentre il bagno era completamente rivestito in pietra e piastrelle. Mitch condusse la fanciulla nella doccia – un grande spazio di marmo senza porta – e poi scomparve.
Lei rabbrividì, sentendo solo un freddo pervasivo, e Victor apparve solo alcuni minuti dopo, portando con sé vari vestiti tra le braccia.
“Uno di questi dovrebbe essere della tua misura,” disse, lasciando cadere il mucchio di stoffe sul mobile del lavandino. Uscì nuovamente dal bagno e attese nel mentre lei si toglieva i vestiti bagnati ed esaminava la pila di quelli nuovi, chiedendosi da dove provenissero. Sembrava che avessero fatto irruzione in una lavanderia, ma almeno erano asciutti e caldi, per cui non si lamentò.
“Sydney,” disse alla fine, la voce attutita dalla camicia incastrata sopra la testa e dalla porta che li separava. “È così che mi chiamo.”
“Piacere di conoscerti,” disse Victor dalla stanza principale.
“Come hai fatto?” domandò lei mentre rovistava tra le altre cose.
“Fatto cosa, esattamente?” ri-chiese lui.
“A fare smettere il dolore.”
“È… un dono.”
“Un dono,” mormorò Sydney riflettendo.
“Hai mai incontrato qualcun altro con un dono simile prima?” chiese lui dall’altro lato della porta.
Sydney non rispose, lasciando che il silenzio venisse riempito dal rumore degli abiti che venivano spostati, arruffati e gettati da parte. Quando alla fine parlò di nuovo, tutto quello che disse fu, “Potete entrare adesso.”
Victor lo fece, e la trovò vestita con dei pantaloni da tuta troppo grandi ed una maglia davvero troppo lunga, ma per il momento doveva farseli andare bene. Le disse di sedersi sul mobile de bagno nel mentre lui le avrebbe esaminato il braccio. Quando ripulì le ultime tracce di sangue, si accigliò.
“Cosa c’è che non va?” domandò lei.
“Ti hanno sparato,” osservò lui.
“Ovvio.”
“Hai giocato con delle armi o qualcosa del genere?”
“No.”
“Quando è successo?” chiese lui, premendo le dita sul polso di lei.
“Ieri.”
Lui continuò a concentrare l’attenzione sul suo braccio. “Hai intenzione di dirmi come è successo?”
“Che cosa vuoi dire?” domandò lei.
“Beh, Sydney, hai un proiettile nel braccio, e il tuo battito cardiaco è piuttosto lento per qualcuno della tua età. E la tua temperatura è decisamente eccessivamente bassa.”
I muscoli di Sydney contrassero, ma non disse nulla.
“Ti sei fatta male da qualche altra parte?” indagò lui.
Sydney si strinse nelle spalle. “Non lo so.”
“Ti farò un po’ male,” l’avvisò. “Per vedere se hai altre ferite.”
Lei annuì flebilmente con il capo. La presa di lui sul suo braccio si strinse maggiormente per un istante, inviandole delle piccole fitte di dolore attraverso diversi punti del suo corpo. Lei ansimò, ma per lo meno poté indicare lui dove sentiva più male. Lo osservò lavorare, cercando di toccarla nella maniera più delicata possibile, come se temesse di romperla. Sembrava lui stesso così delicato: la sua pelle era sottile, i suoi capelli chiarissimi e le sue mani erano come danzare nell’aria.
“Bene,” disse Victor, una volta che aveva finito di medicarla fasciandole le ferite. “A parte la ferita causata dal proiettile e la caviglia slogata, sembri stare abbastanza bene.”
“A parte quello,” ripeté Sydney.
“È tutto piuttosto relativo,” sostenne Victor. “Per lo meno, sei viva.”
“Lo sono.”
“Quindi mi dirai che cosa ti è successo, o no?” insistette lui.
“Sei un dottore?” indagò lei.
“Lo sarei dovuto diventare. Molto tempo fa.”
“Che cosa è successo?”
Victor sospirò e si appoggiò al porta asciugamani. “Ti propongo uno scambio: una risposta in cambio di un’altra risposta.”
Lei esitò per un istante, ma poi annuì.
“Quanti anni hai?” chiese lui.
“Tredici,” mentì lei, perché odiava averne ancora dodici. “E tu?”
“Trentadue. Che cosa ti è successo?”
“Qualcuno ha cercato di uccidermi.”
“Capisco. Ma perché lo avrebbe fatto?”
Lei scosse la testa. “Non è più il tuo turno. Perché non sei diventato un dottore?”
“Mi hanno rinchiuso in prigione,” spiegò lui. “Perché hanno cercato di ucciderti?”
Lei si grattò nervosamente lo stinco, il che significava che stava per mentire, ma Victor non la conosceva abbastanza da saperlo ancora. “Non ne ho idea.”
Sydney fece per chiedergli della prigione, ma poi cambiò domanda all’ultimo momento. “Perché hai voluto soccorrermi?”
“Ho un debole per i randagi,” tagliò corto lui. Ma sorprese anche sé stesso quando gli venne da chiedere, “Tu ce lo hai un dono, Sydney?”
Dopo un lungo momento, lei scosse la testa.
Victor abbassò lo sguardo, e lei notò qualcosa attraversargli il volto, come un’ombra, e per la prima volta da quando la loro auto si era fermata accanto a lei, si sentì inquietata. Non una vera e propria paura, quanto più un flebile senso di panico, un brivido che le percorse la schiena.
Ma poi, Victor alzò di nuovo lo sguardo e quell’ombra sparì. “Faresti meglio a riposarti, Sydney,” disse. “Puoi stare nella stanza in fondo al corridoio.”
Si voltò e sparì prima che lei potesse ringraziarlo.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦

VICTOR si diresse verso la cucina della suite, la quale era separata dalla sala principale solo da un banco di marmo, e versò da bere dalla scorta di liquori che lui e Mitch avevano recuperato quando erano partiti da Wrighton, e che Mitch aveva preso su dall’auto. La ragazzina stava mentendo, e lui lo sapeva, ma resistette all’impulso di ricorrere ai suoi soliti metodi. Era una bambina ed era chiaramente spaventata. Era stata ferita, e già abbastanza traumatizzata.
Victor lasciò che Mitch prendesse l’altra camera da letto. L’omaccione non sarebbe mai stato comodo sul piccolo divano disponibile, e Victor non sarebbe comunque stato in grado di dormire più di tanto. Se gli sarebbe venuto sonno, si sarebbe adattato comunque. Per lo meno non poteva essere peggio che essere in prigione. Per lo meno, un divano era pur sempre meglio di una scomoda branda.
Victor prese il suo drink e vagò lungo il pavimento in legno laminato della suite. Era straordinariamente realistico, ma non produceva alcun cigolio e si percepiva il cemento sottostante. Le sue gambe avevano passato abbastanza tempo sul cemento per riconoscerlo.
Il muro esterno del soggiorno era composto interamente in vetro, e una serie di porte finestre conducevano nel balcone esterno. Ne aprì una e uscì su un pianerottolo poco più basso. Assaporò l’aria pungente, posò i gomiti sulla ringhiera di metallo opaco, stringendo il suo bicchiere ghiacciato, non che lo avvertisse davvero.
Victor fissò Merit. Persino a quell’ora la città era viva, un luogo brulico di gente che poteva percepire senza nemmeno vederle di persona. Ma in quel momento non aveva voglia di pensare a loro, a nessuno di loro. I suoi occhi si puntarono verso i vari edifici, ma la sua mente vagava ben oltre.


 
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– CAPITOLO 11 –
DIECI ANNI PRIMA
UNIVERSITÀ DI LOCKLAND



“EBBENE?” chiese Victor più tardi quella notte. Aveva bevuto un paio di drink. Tenevano delle pinte di birra nella cucina in caso di alcune riunioni e una scorta di superalcolici nel cassetto sotto il lavandino del bagno nel caso di alcune giornate pessime o per quelle molto buone.
“Non c’è modo,” insistette Eli. Notò il bicchiere nella mano di Victor e si diresse verso il bagno per riempirsene uno anch’esso.
“Non è assolutamente vero?” replicò Victor.
“Non c’è modo di ricreare un controllo sufficiente,” chiarì Eli mentre prendeva un sorso. “Nessun modo per garantire la sopravvivenza certa di un soggetto, per non parlare delle abilità. Le esperienze vicine alla morte sono, dopo tutto, vicine alla morte. È un rischio troppo grande.”
“Ma se funzionasse…”
“Ma se non lo facesse…”
“Possiamo crearlo il controllo, Eli.”
“Non abbastanza.”
“Mi hai chiesto se ho mai creduto in qualcosa. Beh, è in questo che voglio credere. Voglio credere che ci sia di più. Diamine, potremmo diventare degli eroi.”
“Potremmo morire,” ribatté Eli.
“È un rischio che corriamo tutti vivendo.”
Eli si passò le dita tra i capelli. Era scosso, insicuro. A Victor piaceva vederlo in quel modo. “È solamente una teoria.”
“Nulla di quello che tu abbia mai fatto, Eli, è stato pensato per rimanere qualcosa di teorico. È questo che vedo quando ti guardo.” Victor era molto orgoglioso di aver verbalizzato quell’osservazione, considerando che era un po’ alticcio. Tuttavia, doveva cercare di smettere di parlare. Non gli piaceva che le persone sapessero quanto strettamente le osservasse, le sfidasse, le imitasse. “Lo capisco,” terminò quietamente.
“Credo che tu abbia bevuto abbastanza.”
Victor guardò il liquido ambra scuro dentro al bicchiere.
I momenti che definiscono la vita non sono sempre ovvi. Non si sa quando si sta per attraversare un evento importante, non si ricevono dei segni o degli indizi. Non sempre gli eventi sono carichi di significato.
Tra un sorso e l’altro, Victor commise l’errore più grande della sua vita, e fu causato da una breve frase composta solamente da tre piccole parole dall’apparenza innocente.
“Lo farò io.”
Ci aveva pensato in macchina durante il ritorno dall'aeroporto, quando si era chiesto ‘perché no?’ Ci aveva riflettuto durante il pranzo, e poi, mentre vagava per il campus, finendo il suo caffè, ci aveva meditato ancora. Ad un certo punto, tra la terza e la quarta tazza, era riuscito a visualizzare il punto focale della faccenda. Non c’era scelta. Non proprio. Questo era l’unico modo per essere più che un mero spettatore delle grandi imprese di Eli. Doveva partecipare; contribuire.
“Che cosa hai?” chiese.
“Che cosa vuoi dire?”
Victor sollevò un sopracciglio, affatto divertito. Eli non faceva uso di droghe, ma le spacciava, e le scambiava nella maniera più veloce di tutto il campo – e Victor scommetteva, più velocemente che in qualsiasi campus – per guadagnare denaro, o qualche favore ed amicizie. Eli sembrava aver capito chiaramente dove Victor volesse andare a parare.
“Niente.”
Victor era già scomparso nel bagno e ne riuscì con la bottiglia di whisky ancora molto piena.
“Che cosa hai?” ripeté.
“Niente.”
Victor sbuffò, si accostò al tavolino e prese un pezzo di carta da macero e si mise a scarabocchiarci sopra qualcosa. Guardò poi i libri sullo scaffale in basso.
“Tieni,” disse, consegnando il foglietto ad Eli, il quale si accigliò. Vic si strinse nelle spalle e bevve un altro sorso.
“Ho lavorato sodo su quei libri,” spiegò, sedendosi sul bracciolo del divano. “Sono delle poesie. E sono una nota suicida migliore di qualsiasi altra che sarei mai stato in grado di scrivere in questo momento.”
“No,” disse di nuovo Eli. Ma quella parola suonò ora distante e noiosa, e la luce nei suoi occhi stava aumentando di intensità. “Non funzionerà.” Anche nel mentre lo diceva, camminò verso la sua stanza, verso il tavolino dove Victor sapeva che tendeva le pillole. Victor si alzò dal divano e lo seguì.

♦ ♦ ♦ ♦ ♦


DOPO una mezz’ora, disteso sul letto con una bottiglia vuota di Jack e un blister di antidolorifici sul tavolino nelle vicinanze, Victor cominciò a chiedersi se avesse commesso un errore.
Il suo cuore martellava dentro il petto, spingendo il sangue a percorrere le vene troppo velocemente. Non riusciva a vedere le cose con chiarezza, così chiuse gli occhi. Altro errore. Si alzò di scatto, all’improvviso, sicuro di dover vomitare, ma delle mani lo spinsero nuovamente giù, trattennero fermo sopra al letto.
“Non farlo,” disse Eli, allentando la presa solo quando Victor deglutì e si concentrò nuovamente sui pannelli del soffitto. “Ricorda quello che ci siamo detti,” disse Eli, aggiungendo qualcosa su come reagire o riguardo la volontà. Victor non lo ascoltava, non riusciva a seguire molto bene il discorso coperto dal rumore delle sue pulsazioni. Non si stava nemmeno più chiedendo se avesse commesso un errore. Adesso ne era certo. Era certo che quello era l’idea peggiore che gli fosse mai venuta in mente in tutta la sua vita. Doveva essere il metodo sbagliato. Non avrebbe dovuto mischiare le anfetamine con il whisky, e nonostante avesse trovato un modo per attenuare i propri sensi, calmare i propri nervi, si sentiva nervoso… impaurito. Stava perdendo pian piano la sensibilità e questo lo spaventava più del dolore perché significava solamente sentirsi… svanire.
Svanire verso la morte, senza nemmeno accorgersene.
Così era sbagliato sbagliato sbagliato… ma quella voce stava andando alla deriva, sostituita da un senso di affondamento –
Poteva funzionare.
Forzò i suoi pensieri attraverso l’offuscamento provocato dal panico. Poteva funzionare, e se avesse funzionato, avrebbe avuto la possibilità di guadagnare un qualche potere, delle prove, qualche evidenza. Voleva essere lui stesso la prova. Senza ciò, sarebbe risultato essere solo un errore di Eli, e un incentivo per proseguire i suoi studi su questa teoria. Iniziò a contare i pannelli del soffitto, ma non riuscì a mantenersi abbastanza concentrato. Anche se il suo cuore era teso, i suoi pensieri filavano via come nubi di fumo, riversandosi in nuovi pensieri che venivano poi nuovamente offuscati da altri. I numeri cominciarono a sovrapporsi. Tutto cominciò a confondersi. Le sue dita si erano intorpidite in modo preoccupante. Non erano fredde, ma era come se il suo corpo cominciasse ad esaurire le sue ultime energie, iniziando a prosciugarsi dagli arti più piccoli. Anche il senso di nausea non vi era più. Solo il battito fremente nel polso lo avvertiva che il suo corpo era ancora lì presente.
“Come ti senti?” domandò Eli, sporgendosi in avanti dalla sedia che aveva accostato al letto. Non aveva bevuto niente, ma gli brillavano gli occhi. Non sembrava per niente preoccupato. Non sembrava spaventato. Ma dopotutto, non era lui che stava per morire.
Victor dovette concentrarsi un bel po’ per riuscire a formulare le giuste parole. “Non bene.”
Avevano deciso di optare per una overdose in perfetto vecchio stile per diversi motivi. Se l’esperimento fosse fallito sarebbe stata la morte più semplice da spiegare. Inoltre, Eli poteva aspettare di chiamare i soccorsi fino a quando la situazione non sarebbe diventata critica. Raggiungere l’ospedale troppo il fretta avrebbe significato un’esperienza vicina alla morte non mortale ma molto spiacevole.
Il torpore si stava facendo strada attraverso il corpo di Victor; dalle membra fino alla testa. Il suo cuore pulsava in modo sconcertante.
Eli parlò ancora a voce bassa.
Ogni volta che Victor sbatteva le palpebre diventava sempre più difficile riaprire gli occhi. E poi, per un istante, la paura si diffuse attraverso di lui. La paura di morire. La paura verso Eli. La paura per tutto quello che sarebbe potuto accadere. La paura che non sarebbe successo nulla. Fu così improvvisa e devastante.
Ma presto anche quella sensazione sarebbe svanita.
Il suo cuore palpitò di nuovo. Riusciva a sentire Eli parlare, e doveva essere importante perché alzò la voce in un modo che non aveva mai fatto, ma Victor stava sprofondando, sempre di più, attraverso la pelle, il letto e il pavimento, fino a ché non divenne tutto nero.


 
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– CAPITOLO 12 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL



VICTOR sentì qualcosa rompersi e guardò verso il basso per scoprire di aver stretto troppo il bicchiere contenente la sua bevanda, rompendo il vetro. Aveva ancora i frammenti in mano, il sangue gli macchiava il palmo e scorreva lungo le dita. Aprì il pugno e il vetro rotto cadde giù verso il baratro sopra al boschetto sottostante. Guardò le piccole schegge rimase conficcate nella pelle.
Non le sentiva minimamente.
Victor tornò dentro e si diresse verso il lavello, rimuovendo i frammenti più grossi dalla mano, osservandoli luccicare poi all’interno del lavabo in acciaio. Si sentiva goffo, intorpidito, incapace di estrarre le schegge più piccole; così chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e iniziò ad accettare di sentire il dolore. La sua mano prese a bruciargli, il palmo doleva e lo aiutò a determinare dove fossero i vetri rimasti. Finì di estrarre i pezzi e rimase lì in piedi a fissare la mano insanguinata, con delle superficiali ondate di dolore che gli risalivano fino al polso.
EstraOrdinario. La parola che aveva dato inizio a tutto; la parola che aveva cambiato e rovinato tutto.
Si accigliò, cercando di riprendersi. Il dolore si acuì, diffondendosi come un formicolio dalle dita fino al polso. Le mani di Victor iniziarono a tremare, ma lui proseguì a far divampare quella sensazione, cercando di concentrarsi a finché la mano non bruciò più.
Le sue ginocchia cedettero e si aggrappò al bancone con la mano insanguinata. Il dolore si spense, lasciando Victor nuovamente nell’oscurità. Si alzò di nuovo in piedi. Stava ancora sanguinando, e sapeva che avrebbe dovuto prendere il kit medico che avevano preso dalla macchina per poter aiutare Sydney. Per l’ennesima volta, Victor desiderò di poter scambiare la propria abilità con quella di Eli.
Ripulì il bancone dal sangue e si versò un altro drink.


 
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– CAPITOLO 13 –
DIECI ANNI PRIMA
CENTRO MEDICO DI LOCKLAND



ALL’improvviso giunse il dolore.
Non il dolore che Victor avrebbe in seguito imparato a conoscere, ad abituarsi e a usare, ma quel semplice dolore causato da una pessima overdose.
Dolore e oscurità, che si fece poi più vivido una volta immerso nelle luci accecanti dell’ospedale.
Eli era seduto su una sedia accanto al suo letto, proprio come nell’appartamento; solo che adesso non c’erano bottiglie di alcolici, né pillole in giro. Udiva solo il suono ripetuto delle macchine e dei fogli che scendevano dalla macchina fino al terreno, ma furono abbastanza per incrementare il peggior mal di testa che Victor Vale avesse mai sperimentato, comprendendo anche l’esperienza di quell’estate in cui aveva deciso di razziare la collezione speciale dei suoi genitori nel mentre questi erano in tournée in Europa. Eli aveva il capo chino, le dita delle mani congiunte come se stesse pregando. Victor si chiese se non fosse quello che stesse effettivamente facendo.
“Non dovevi scomodarti tanto,” sussurrò quando fu sicuro che Eli non fosse troppo occupato a conversare con Dio.
Il suo amico alzò lo sguardo. “Avevi smesso di respirare. Stavi per andare in arresto cardiaco.”
“Ma non è successo.”
“Mi dispiace,” disse Eli, strofinandosi gli occhi. “Non potevo…”
Victor rilassò nuovamente i muscoli. Supponeva che dovesse essergli grato. Era meglio prevenire qualcosa piuttosto che cercare di curarlo troppo tardi. Eppure, continuava a desiderare che avesse funzionato. Se così fosse stato, si sarebbe sentito diverso? Le macchine sarebbero impazzite da un momento all’altro? O il letto avrebbe potuto prendere fuoco?
“Come ti senti?” gli domandò Eli.
“Malissimo, Cardale,” sbottò Victor, ed Eli trasalì, più per il fatto di sentirsi chiamare così, piuttosto che per il suo tono. Dopo aver bevuto tre drink e che le pillole iniziassero a fare effetto, aveva deciso che si sarebbe riferito ad Eli per sempre con Cardale, perché suonava meglio, e inoltre gli eroi che nei fumetti avevano ruoli più importanti tendevano a non chiamarsi molto spesso per nome. Anche se in quel momento non sembrava più un dettaglio poi così importante.
“Stavo pensando,” iniziò Eli, sporgendosi in avanti. Si torse le dita e gli tremolava una gamba. Victor cercò di concentrarsi su quello che Eli gli stava cercando di dire, nonostante fosse deconcentrato dai suoi movimenti. “La prossima volta, penso –”
Si bloccò quando una donna sulla soglia si schiarì la gola. Non era un medico – non indossava un camice – ma una piccola targhetta spillata sul petto indicava qualcosa di ben peggiore.
“Victor? Mi chiamo Melanie Pierce. Sono il capo del dipartimento di psicologia del Centro Medico di Lockland.”
Eli le dette la schiena e strinse gli occhi su Victor, in segno di avvertimento. Victor rispose con un cenno della mano verso Eli, cercando di comunicargli di poter stare tranquillo e che non avrebbe spifferato niente.
Eli si alzò, borbottò qualcosa sulla sua intenzione di chiamare Angie e poi chiuse la porta dietro di sé una volta che fu uscito.
“Victor.” La signora Pierce pronunciò il suo nome in modo lento e turbante, passandosi una mano tra i capelli castano chiaro. Era una donna sulla mezza età. Il suo accento era abbastanza marcato ma usava un tono chiaramente controllato e condiscendente. “Il personale mi ha detto che non sono ancora riusciti a avvisare i tuoi contatti di emergenza.”
Tutto quello che riuscì a pensare fu un ringraziamento agli dei. Nonostante ciò, disse, “I miei genitori? Sono in tournée. ”
“Beh, in queste circostanze è importante che tu sappia che –”
“Non ho cercato di suicidarmi,” mentì in parte.
Lei strinse le labbra.
“Ho semplicemente festeggiato un po’ troppo.” Approfondì lui, per convincerla.
Lei fece un breve cenno di comprensione con il capo.
“Studiare alla Lockland può essere piuttosto stressante. Avevo bisogno di una pausa.” Ammise.
Ms. Pierce sospirò. “Ti credo,” disse. Mentendo ella stessa. “Ma quando ti rilasceranno –”
“Sa quando lo faranno?”
Le labbra di lei si incresparono. “Siamo obbligati a tenerti qui per almeno settantadue ore.”
“Ma ho lezione.”
“Hai bisogno di del tempo per riprenderti.”
“Ho bisogno di seguire le lezioni.”
“Non è una cosa che si possa discutere.”
“Ma non stavo cercando di uccidermi.”
La voce di lei si irrigidì divenendo leggermente meno amichevole, più onesta, impaziente. “Allora perché non mi spieghi che cosa davvero avevi intenzione di fare, se non questo?”
“Ho semplicemente commesso un errore,” insistette Victor.
“Commettiamo tutti degli errori,” ribatté lei, facendolo sentire colpevole. Non sapeva se fosse stato un effetto collaterale dell’overdose sul suo umore, o un intento di terapia da parte della psicologa. Chiuse gli occhi e lasciò che lei continuasse a parlare. “Quando ti rilasceremo, ti consiglio di incontrarti con il consulente della Lockland.”
Victor gemette. Il Consigliere Peter Mark. Un uomo con il cognome che ricordava un nome, nessun senso dell’umorismo e un serio problema di sudorazione.
“Davvero, non credo sia necessario,” mormorò. A causa dei suoi genitori, aveva dovuto subire delle terapie subliminali abbastanza per tutta la vita.
L’aspetto condiscendente della signora Pierce tornò alla luce. “Io credo il contrario.”
“Se accettassi, mi rilascereste subito?”
“Se non rispetterai queste condizioni, tempo che la Lockland non ti riaccoglierà. Resterai qui per settantadue ore e durante questa cadenza dovrai avere degli incontri con me.”
Victor trascorse le ore seguenti a pianificare come uccidere qualcun altro – la Signora Pierce, in particolar modo – invece che sé stesso.


 
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– CAPITOLO 14 –
DUE GIORNI PRIMA
ESQUIRE HOTEL



IL bicchiere con il drink penzolava in modo precario nella mano di Victor. Non importava quante volte continuasse a fare avanti e indietro da una parete all’altra del corridoio della suite dell’albergo, la sua irrequietezza non sembrava voler diminuire. Invece, sembrava aumentare sempre di più, mentre un qualcosa si faceva largo nella sua mente. La voglia di urlare, di prendere a pugni qualcosa o di lanciare il bicchiere contro il muro lo infervorì improvvisamente. Chiuse gli occhi e cercò di costringersi a fermarsi.
Victor si bloccò, rimanendo perfettamente immobile e cercando di forzarsi a non riprendere a camminare.
In prigione aveva già passato dei momenti come questo. La stessa sensazione di panico aveva raggiunto il picco come un’ondata prima di schiantarsi contro di lui. Quanti giorni aveva passato a resistere all’impulso di sfruttare quella cosa dentro di lui, e distruggere tutto? Tutti?
Ma non poteva permetterselo. Non ancora, non adesso. L’unico modo che era riuscito a trovare per uscire dall’isolamento era stato quello di convincere lo staff, oltre ogni dubbio, che era normale, impotente, e per nulla minaccioso, o almeno non più degli altri 463 detenuti. Ma in quei momenti di oscurità, bloccato nella sua cella, l’impulso di spaccare tutto quello che c’era intorno a lui erano paralizzanti. ‘Distruggi tutto, e vattene di qui.’
Ora, proprio come allora, si ripiegò su sé stesso, facendo del suo meglio per scacciare il pensiero che aveva il potere che poteva usare contro gli altri. Ora, proprio come allora, ordinò al suo corpo ed alla sua mente di calmarsi. Chiuse gli occhi e cercò il silenzio, si ripeté un promemoria del perché non poteva permettersi di lasciarsi andare in questo modo, una sfida, un nome.
Eli.


 
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